Nei primi anni dell’Ottocento il riscatto di una vita di umiliazioni e stenti iniziò a percorrere le strade del Friuli contadino con le sembianze di un
alambicco montato su ruote che si spostava di fattoria in fattoria. Era lo strumento di lavoro degli sgnapin, alcuni degli artigiani senza insegna che
allora – come scrisse Chino Ermacora – percorrevano incessantemente le strade da paese a paese “lavorando nei cortili dove bimbi e bipedi ruzzano
insieme”. La distillazione a domicilio aveva un grande significato sociale perché riusciva a garantire anche alla popolazione più povera una scorta di
alcol che veniva ricavato da quello che i possidenti allora abbandonavano: le vinacce. Dopo la vendemmia i proprietari tenevano per sé il vino che in
parte anche distillavano ottenendo l’acqua di vita. Le bucce dell’uva – considerate un rifiuto – restavano ai contadini. Dalla trape, così in lingua
friulana si chiamano le vinacce, i contadini riottenevano un vino lavandole con dell’acqua e poi – grazie all’alambicco arrivato nel cortile –
producevano la grappa. Era l’alcol dei poveri: a suo modo, il simbolo del riscatto di molte mortificazioni.
La concessione dell’imperatrice Maria Teresa e la legislazione Lombardo-Veneta favorivano in quel periodo la produzione di grappa: il quantitativo
realizzabile in 24 ore di distillazione era esente da tasse e il lavoro era febbrile. La grappa era molte cose: un digestivo, il medicinale per il mal
di testa e di denti, utile a correggere i vini troppo magri. Nel 1871, cinque anni dopo l’annessione di gran parte del Friuli al Regno d’Italia, le
concessioni asburgiche furono cancellate e il settore oltre a essere regolamentato fu anche bersaglio di tasse nazionali e locali. La distillazione
familiare continuò, ma diventò clandestina. Si distillava di nascosto e l’alambicco – suddiviso in pezzi – viaggiava lungo percorsi diversi e fuori mano
in modo da superare eventuali controlli. Tutti sapevano, ma nessuno voleva sapere.