Quante volte, visitando le cantine, partecipando alle degustazioni, ascoltando i vignaioli, gli esperti, chiunque, abbiamo sentito dire la fatica frase:
“Il vino si fa in vigna…”. Quante volte ci siamo persi a guardare tra i filari i paesaggi maestosi che i territori vitati offrono, pieni di scorci
magici, pieni di vita, pieni di opportunità di cercare nuovi hashtag per il nostro profilo Instagram, per poi tuffarci nei bicchieri a inseguire
sentori, a parlar di legno, acciaio, uova di cemento, macerazioni, malolattica svolta, o no. Quante volte? È sempre vero ciò che crediamo di sapere, nel
momento in cui utilizziamo il termine terroir decidendo di sentirlo nel vino? Decidendo di sentirlo, non sentendolo.
Esiste un distacco fisiologico tra il calice di vino che stiamo degustando e l’acino d’uva che ha passato una stagione intera a crescere e sperare di
riprodursi con la terra. Il distacco è lo stesso della nostra purezza gnoseologica di quando eravamo bambini, poeti naturali direbbe Nietzsche, a quando
adulti ci nascondiamo dietro le nostre parole. Passiamo anni a studiare i vini, ad assaggiarli, a riconoscerne i sentori, riuscendo poi con l’esperienza
ad avere risposte immediate a sentori riconoscibili, risposte, che sono nella maggior parte dei casi suggerite dall’enologia, da ciò che avviene in
cantina, perché beviamo uva trasformata, non uva. Proviamo a fermarci un attimo. Noi Sommelier partiamo studiando il vino, in un processo inverso che
relega la conoscenza dell’uva a qualcosa che in qualche modo snobbiamo. È lo stesso sentimento che ci fa snobbare il futuro in favore del passato quando
ascoltiamo musica, ma questo è un altro discorso.