La collina di Corton è il miraggio della Côte di Armando Castagno, foto di Andrea Federici Dopo diversi chilometri di strada in direzione sud, passati a chiedersi dove sia finita la Côte che con tanta baldanza trionfava fino alle ultime colline di Nuits-Saint-Georges, ecco apparire, come un miraggio, la collina di Corton. È sulla destra di chi guida in direzione di Beaune; precisazione del tutto inutile, perché è impossibile non vederla, spettacolare com’è nella sua ordinata pettinatura di vigneti e nella corona boschiva che la sovrasta, regolare nella forma ovale, ed enorme per dimensioni. Il primo comune che ne possiede una sezione è Ladoix-Serrigny, nome per una volta non derivato dall’aggiunta a un toponimo antico di un “cru” (Musigny, Chambertin, Romanée, Saint-Georges…) ma dalla fusione forzosa di due minuscoli agglomerati urbani che erano rimasti divisi per un millennio. Uno è Ladoix, che sta proprio lungo la Dipartimentale 974 e l’altro è Serrigny, un po’ defilato nella campagna a est e attraversato da una strada principale; allontanandosi dalla Côte propriamente detta, questa strada scorta il visitatore verso quiete, fiabesche atmosfere rurali, tra aperture nella campagna e ruscelli dagli argini in pietra chiara, fino al muro di cinta dello Château de Serrigny. È questo un luogo sacro, ma dimenticato, della Borgogna del vino e in effetti ormai è inutile alla causa perché non produce più i suoi delicati Corton-Bressandes o Corton-Clos du Roi. La terra vitata è però ancora proprietà della famiglia che lo abita, una secolare dinastia di possidenti terrieri, i principi de Merode, di origine spagnola. Gli ultimi principi, marito e moglie, si sono spenti molto anziani a brevissima distanza l’uno dall’altra, alcuni anni fa. I figli, disinteressati a proseguirne l’opera in vigna, hanno valutato un po’ di offerte, poi sono andati per la via maestra, affittando al Domaine de la Romanée-Conti le loro tre parcelle sulla collina e inserendo nel contratto l’obbligo per gli affittuari di specificare, sotto la scritta “Corton”, un tributo al loro padre. Il vino esce, dal 2009, come “Corton Grand Cru – Prince Florent De Merode”. Torniamo lungo la strada principale, per lambire le vetuste case del borghetto di Ladoix. Ve ne sono di chiaramente medievali, indietro fino al XIV secolo almeno; in qualcuna di esse si produce continuativamente vino da allora, ma senza strombazzare ai quattro venti tanta tradizione. Il Domaine Nudant, per esempio, è facile da individuare essendo proprio a lato della via ed è citato in un inventario di vigne e vignerons di quasi sette secoli or sono. Buona parte delle parcelle di questo comune sono in piano, o giù di lì: le viti affondano le radici in una terra scura e grassa, quasi priva di materiale sassoso e di conseguenza i vini che esse rendono hanno caratteri di robustezza strutturale nei casi migliori, una certa rustica semplicità negli altri. Fanno eccezione alcuni bianchi, di notevole vigore minerale e densità di sapore; le prime vigne che si incontrano arrivando da nord si chiamano “La Mort” e “Les Madonnes”, nomi con diverse ragioni per non venire rivendicati in etichetta. La prima delle due, platealmente indicante il luogo delle esecuzioni in epoca arcaica, è una bella zona da Chardonnay; esso, volendosene accertare, è alla base del nervoso, teso Ladoix Blanc del Domaine Chevalier. La stessa azienda ha a listino un Premier Cru a nome Les Gréchons, prodotto invece nella zona di Ladoix alta e impervia: la migliore. È una vigna la cui storia ha molto da insegnarci; chi scrive la conobbe una ventina di anni fa grazie al sommelier di un ristorante di Flagey-Echézeaux che la decantava come “le Charlemagne des pauvres”. Forse la definizione (il Corton-Charlemagne dei poveri) è un po’ enfatica, però Les Gréchons è in effetti, e per comune sentire, il miglior luogo del comune di Ladoix per lo Chardonnay; è stato di recente (2006) promosso al suo rango attuale, a . Il rosso da questa vigna è rimasto quel che era, un semplice Ladoix “Villages”; è un indirizzo nuovo per l’istituto nazionale delle denominazioni di origine (INAO) quello di “metter bocca” sulla vocazione di un luogo a una certa tipologia – in pratica, il colore del vino. A Ladoix il lavoro è stato fatto in modo accurato, per qualcuno anche pedante; alcune vigne hanno visto bocciata la proposta di promozione, altre l’hanno vista accolta in toto, ad altre ancora il nuovo status è stato garantito solo per il vino bianco (le aree più alte) o rosso (le più basse e argillose, verso il fondovalle). condizione che il vino sia bianco Il comune di Ladoix-Serrigny – a proposito: il nome amministrativo è doppio, ma la denominazione del vino comprende solo il termine “Ladoix” – è uno dei tre che si spartiscono il territorio della celeberrima collina di Corton, della quale, ora che ci avviciniamo al suo nucleo produttivo, è il caso di accennare le vicende storiche. Il nome Corton, informa un tableau che trovo nel centro del villaggio successivo, Aloxe-Corton, è di etimo latino, ed è contrazione di Curtis Othonis, la corte di Ottone. E chi era adesso Ottone? Certo non l’imperatore romano del I secolo dopo Cristo, come il cartello ineffabilmente propone; ma l’Ottone in questione ha regnato per tre mesi, e di queste lande probabile non abbia neanche sentito parlare. Opteremmo invece per Ottone I di Sassonia, imperatore del Sacro Romano Impero nonché marito, in seconde nozze, di Adelaide di Borgogna, per i cristiani Sant’Adelaide, morta due settimane prima dello scoccare del fatidico anno Mille (ricorrenza: 16 dicembre). Non è un caso che la denominazione senz’altro più celebre della collina ne ricordi un altro, di imperatore, ossia Carlo Magno. Se infatti lungo tutte le pendici del rilievo è possibile rivendicare la AOC Corton (Rouge, se da Pinot Noir; Blanc, se da Chardonnay), nella zona più alta, al limite del grande bosco che sovrasta il tutto, i bianchi prendono il nome di “Corton-Charlemagne”, e si vendono da soli per il combinato disposto di una bontà diffusamente eccezionale, di una longevità da record e di un nome memorabile. Tutta la collina è gratificata dello status di Grand Cru, il più vasto della Borgogna a mani basse; il Corton misura oltre 150 ettari (di cui oltre 77 atti a Corton-Charlemagne). Quanto alla storia reale dei luoghi, c’è parecchia nebbia a sfumare i contorni e troppo pochi documenti superstiti. È quasi certo che Carlo Magno queste terre non le abbia mai visitate, contrariamente al contenuto di tante leggende che imperversano in Borgogna, compresa quella per cui il grande Imperatore avrebbe fatto convertire alle uve bianche le coltivazioni sulla collina per non macchiarsi di rosso la barba bevendone il vino. Se non che – esattamente come accaduto per la figura di Gesù Cristo nell’arte – per lungo tempo Carlo Magno non è stato mai raffigurato con la barba, ma solo, e nemmeno sempre, con i baffi. Da un certo punto in poi si compie la sua trasformazione in una specie di Odino barbuto e incoronato e alla barba nella sua iconografia non si rinuncia più nel corso dei secoli. È una leggenda, dunque, nata tardi, non ai suoi tempi. Barba o non barba, l’idea di piantare uva da bianco e non da rosso lassù in alto è stata comunque geniale; il vino trova nella AOC Corton-Charlemagne, obbligatoriamente da Chardonnay con possibile saldo di Pinot Bianco al massimo per il 10%, una tale, veemente energia da costituire un unicum nell’intero panorama borgognone della tipologia. Esistono, certo, altri Grand Cru di pari o persino superiore lignaggio (Montrachet, Chevalier-Montrachet, Bâtard-Montrachet…), ma nessuno ha come carattere primario la violenza minerale e salina del Corton-Charlemagne, preferendo puntare su caratteri come la soavità, la purezza, la complessità aromatica, la raffinatezza dell’insieme. Insomma, questo bianco è una macchina da guerra non meno dell’esercito carolingio dei tempi andati. E il Corton Rouge? La risposta soffia nel vento, canterebbe Bob Dylan; nel senso che le differenze tra una parcella e l’altra, su oltre 150 ettari di territorio con almeno cinque esposizioni differenti, sono troppo marcate per conferire senso a una denominazione che non le distinguesse. Il sistema funziona, tuttavia, perché da sempre è in uso distinguere i “sous-climats” sulla collina, scrivendone il nome accanto al termine “Corton” in etichetta, separato da un trattino; sempre che le uve provengano tutte da quella specifica parcella. In questo modo, si comunica al cliente qualcosa in più sul contenuto della bottiglia, su cosa aspettarsi. Queste sottoparcelle sono la bellezza di 26 e vi si annovera di tutto: estremi di finezza e sottile eleganza (Le Corton, Corton-Clos du Roi, Corton-Perrières), esempi di gagliardia e profondità (Corton-Paulands, Corton-Maréchaudes, Corton-Vergennes), virtuosi esempi di bilanciamento (Corton-Le Rognet, Corton-Renardes, Corton-Bressandes). Dobbiamo però essere onesti fino in fondo e precisare una cosa. La denominazione Corton è, tra quelle di categoria Grand Cru, una di quelle in cui la qualità media è meno esaltante, almeno con riguardo ai rossi. E allora perché cercarli, potrebbe chiedersi un appassionato? Semplice: perché il Corton Rouge, specialmente quello proveniente da alcuni degli appezzamenti sopra citati, è uno dei rossi più longevi del mondo: non avrà il più ispirato dei bouquet, ma avanza lungo i decenni come un caterpillar. Abbiamo memoria di assaggi, in verità anche recenti, di Corton rossi del 1917, del 1928, del 1937, del 1945, del 1947, da bottiglie la cui conservazione non ci era affatto stata garantita - anzi, in due casi su cinque era stata chiaramente precaria. Ebbene, pur nella spigolosità quasi ostile del sorso, non abbiamo mai trovato un cenno di vero decadimento; semmai, spesso, una terziarizzazione severa, incupita e monacale, su toni di saldatura, di ruggine, di fiori appassiti, di colla vinilica, di tessuto, di canfora; ma nulla di ossidato, stucchevole o svenevole. Anche il comune di Aloxe-Corton, l’unico del distretto ad aver aggiunto il nome della celebre collina al proprio originario, vanta altre vigne di pregio; proprio come a Ladoix, più in basso si trovano le piante, più emergono nei vini accenti ombrosi, qui tipicamente di tabacco scuro, cacao amaro, confettura di amarene, gelsi o more di rovo. Della ventata orientaleggiante dei grandi rossi della Côte de Nuits non si coglie più neppure l’indizio; Aloxe segna, procedendo verso sud, l’avvio di una nuova ipotesi per il Pinot Noir della regione, più basata su concetti quali la consistenza e la generosità che sulla ricercatezza espressiva o l’aerea delicatezza. Un’ipotesi concreta, solare e terragna, verrebbe quasi da dire “mediterranea”, che terrà compagnia al viaggiatore da qui fino al comune di Givry, in Côte Chalonnaise, l’estremo avamposto di Borgogna per questa magica e complicatissima varietà. I nomi delle vigne più importanti di Aloxe (Corton Grand Cru a parte!) non dicono praticamente nulla a chi non sia espertissimo del vino della regione: Les Valozières e Les Fournières sono i Premiers Crus di più solida reputazione, mentre tra le parcelle “Villages”, di categoria quindi inferiore, un contadino locale vi indicherà come le migliori Les Boutières, Les Combes, Les Vercots e la parte bassa del già citato Valozières. Eppure, un ettaro scarso che abbiamo intercettato essere in vendita nell’estate del 2019 partiva da un prezzo richiesto di circa un milione di euro. Considerando che un ettaro può fornire circa 6.000 bottiglie di vino in una stagione favorevole, e che il prezzo medio franco cantina di un Aloxe-Corton “Villages” è di circa 9-10 euro, ci vogliono oggi quasi 18 anni per rientrare dell’investimento; a patto ovviamente di trovare annate che consentano di produrre il massimo da disciplinare, e di vendere tutto fino all’ultima bottiglia. La collina di Corton riserva un’ultima sorpresa per il visitatore: il terzo comune ad avanzare diritti amministrativi sul suo territorio è infatti nascosto in una valletta laterale dalla parte opposta, là dove le vigne sulla collina guardano il sole al tramonto, se non addirittura il nord-ovest. Il luogo, antico e molto angusto e ventoso, si chiama Pernand-Vergelesses e lo si raggiunge superando il centro storico di Aloxe e raccordandosi alle Dipartimentali D115d prima e D18 poi. Il profilo del paese, agglutinato lungo il versante di un rilievo detto “Frétille”, è inconfondibile: un ammasso di case di pietra sul quale svetta il campanile della chiesa romanica di Saint-Germain, restaurata nel 1869, ma risalente, nelle sue semplicissime forme originarie, alla metà del Duecento. Sarebbe questa la sola attrazione del villaggio, privo di negozi o ristoranti, se non fosse Pernand-Vergelesses uno dei borghi più belli della Borgogna quanto a contesto ambientale; da almeno tre punti, salendo lungo i suoi stretti tornanti, la vista si spalanca su panorami meravigliosi. Uno è particolarmente romantico, perché vi è stata sistemata una singola postazione per pic-nic: un tavolaccio in legno e due panche arrangiate, che farebbero tristezza ovunque tranne che dove sono, cioè in bilico sulla scarpata di vigneti sotto il Bois de Noël. Una baguette come si deve o un pezzo di Comté e una mezzina di Bourgogne Rouge ben fresco, in una giornata luminosa d’inizio estate, qui si trasformano in strumenti di puro benessere; occhio però al meteo: incanalata com’è in una valle a forma di Y – un cui ramo sfonda nelle Hautes- Côtes – Pernand va soggetta a cambiamenti climatici incredibilmente repentini. Quanto al vino, la storia narra di una vocazione univoca verso il bianco; la vasta, unica parcella del comune sulla collina, dal nome di “En Charlemagne” e dall’esposizione più unica che rara verso ovest-nord ovest, presenta una percentuale schiacciante di Chardonnay, e regala ai vini che ne derivano (come lo strepitoso Corton-Charlemagne di Bonneau du Martray, l’azienda più importante del comune) un coacervo di ampiezza e tensione che nelle annate migliori lasciano affatturati. Quasi aggettanti sopra il paese si trovano invece altre vigne di rilevante talento. La più celebre, Sous Frétille, ha seguito quindici anni fa lo stesso destino del Gréchons di Ladoix, cioè quello di vedersi riconosciuto lo status di Pernand-Vergelesses Premier Cru, ma solo a patto di fornire un vino bianco, mentre il rosso è rimasto un semplice “Pernand-Vergelesses”. Tutte le parcelle a contorno del Sous Frétille (La Morande, Les Quartiers, Clos du Village) sono rientrate nel provvedimento, e una di esse, il Clos Berthet, vede tuttora compresenti Chardonnay e Pinot Noir (è un monopolio del Domaine Dubreuil-Fontaine). Quindi, dal 2006 in avanti, vi si annota l’anomalia di una stessa vigna che dia origine a vini di categoria e ambizione differenti a seconda del colore. Lasciamoci alle spalle Pernand, imboccando la Dipartimentale 18 in direzione di Savigny-Lès-Beaune, dove faremo sosta nel prossimo numero per visitarne, oltre alle millenarie vigne, anche il colossale e sorprendente Château e i piccoli borghi nascosti. Faremo tappa a Chorey-Lès-Beaune in cerca di vini disimpegnati e a buon mercato, per dirigerci infine, e sostarvi per il tempo che merita, tra le mura, i monumenti, le vecchie case e i tanti segreti della capitale della Borgogna viticola: la splendida città di Beaune, “dove tutto sembra fatto per incantare”. Mangiavino ringrazia l’editore Paolo Bartolomeo Buongiorno per le immagini tratte dal volume “ ” di Armano Castagno. Borgogna. Le vigne della Cote d’Or www.buongiornovino.com