Guardate, se vi aspettate che vi racconti di come l’innovazione distruggerà alcuni paradigmi allora continuate a leggere, mentre se vi aspettate che
difenda con paura posizioni e idee desuete allora andate alle pagine successive. Tutto ciò che è vivo cambia, tutto. Lo stesso principio di essere vivi
presuppone cambiamento. Il vino cambia, le uve cambiano, si adattano. Lo stesso concetto di autoctono è un’aberrazione vista come principio e fine di un
territorio e di questo tutti (o quasi, o almeno dovremmo) siamo consapevoli. Le tecnologie e le conoscenze che oggi ci permettono di arrivare ad
affermazioni su un calice o l’altro, sulle varietà e gli stili, per non parlare di territorio, dovrebbero, come degustatori, metterci davanti a uno
specchio che dipinge e tratteggia i limiti delle nostre profonde incapacità. È normale. È un fatto. L’intelligenza artificiale, termine che già pone una
enorme contraddizione in termini al pari di “vino naturale”, potrà aprire strade per noi che degustiamo e raccontiamo i vini e i territori così ampie e
bellissime che forse non abbiamo ancora il coraggio di percorrere.
Degustare e raccontare un vino impone a chi lo fa una lunga fase di studio e di conoscenza che spesso si traduce in una terminologia scarna con la
pretesa dell’oggettività su un tema totalmente soggettivo. Questo ci fa già dedurre che la nostra stessa “intelligenza” riguardo al vino sia totalmente
“artificiale”. Ogni termine che utilizziamo nei descrittori è desunto dalla traduzione di molecole che causano sentori che noi traduciamo in termini ad
uso e consumo di chi abbiamo davanti. Semplifichiamo, ovviamente, riduciamo la complessità e lo facciamo in buona fede, ma togliamo spazio
all’oggettività per quanto bravi possiamo essere. Chiedere a una intelligenza artificiale di descrivere un vino permette alla stessa di avere milioni di
possibilità maggiori e di combinazioni che rendono ancora più oggettivo, preciso e corretto il rapporto tra il vino e il degustatore. Tutto perfetto. O
quasi.