Curiosamente, nella storica opera veronelliana “I Vini d’Italia”, edizione del 1964, il Friuli non compare come capitolo a sé stante. Viene invece trattato insieme ai vini veneti, con il titolo Veneto-Venezia Giulia. Si può ben comprendere: il Friuli-Venezia Giulia ha ottenuto l’ufficialità di regione a statuto speciale soltanto nel 1963, e le guide vengono chiuse redazionalmente con mesi di anticipo. Più in generale, il polo attrattivo del Veneto era accettato come riferimento culturale e storico assodato. Lo conferma l’ispirata introduzione, a firma nientemeno che di Giovanni Comisso, scrittore famoso e a suo tempo soldato a Caporetto. Vi si trovano passaggi che suonano evocativi e insieme un po’ bizzarri, letti oggi: “Tanti sono i vini veneti zampillanti nel dare più o meno ombra sulla tavola o nella testa. Ne ricorderò alcuni, quelli friulani”. Oppure: “Il Friuli è abitato da una gente tenace che nel lungo corso della sua storia ha sempre lottato contro le invasioni e ha un culto speciale per il vino, quasi trovi in esso il conforto e il coraggio per resistere”. O ancora: “nel visitare certi vigneti e cantine a pochi chilometri da quel confine che è stato sempre una porta aperta a tutte le invasioni, vigneti razionali e cantine pulitissime, viene da pensare che questi proprietari siano formidabili giocatori d’azzardo nel fare tante opere imponenti su questo incerto orlo d’Italia”.
Comisso coglie un punto decisivo: il Friuli Venezia Giulia è terra di confine, e così sono i suoi vini. Molti dei suoi vini, se non tutti. Nel 1990, ancora sugli allori di un passato recente glorioso, i vini friulani erano sinonimo di vini bianchi per pressoché tutti i bevitori italiani. I produttori della regione avevano costruito questa fama adottando, tra i primissimi in Italia, delle tecnologie innovative, soprattutto in cantina. Da almeno un quindicennio qui si facevano vini emendati da ogni approssimazione aromatica o gustativa. Altrove era ancora frequente imbattersi in vini bianchi rustici e imprecisi: qua un po’ respingenti all’olfatto per problemi di riduzione, là precocemente ossidati, là ancora aspri come una spremuta di limone senza zucchero. In Friuli no. In Friuli si producevano bianchi privi di difetti, brillanti nel colore (spesso più sulla tinta bianco carta che sul famoso “giallo paglierino”), senza puzze e puzzette al naso, freschi e lineari nello sviluppo gustativo.