La lenta e lunga marcia dello schioppettino

di Francesco Antonini

Parlare di vitigni autoctoni in Friuli Venezia Giulia è spesso un esercizio di congiunzioni avversative. Non ricordate quali siano? Niente paura: la grammatica è una questione di pratica e non certo di definizioni. Si tratta comunque di particelle di uso comune come “ma”, “però”, “tuttavia”, “eppure”. E sono proprio queste le paroline che spesso accostiamo alla frase principale quando dobbiamo spiegare caratteristiche e potenzialità dei vitigni peculiari di un determinato territorio. Qualche esempio? “Il Tazzelenghe è un vitigno a bacca nera con grandi potenzialità di invecchiamento, ma per molti anni è caduto nell’oblio”. “Il Pignolo era considerato eccellente già nel Settecento, tuttavia dal secolo successivo è stato largamente abbandonato a favore di varietà più produttive”.
Per farla breve, c’è sempre un “ma” a frenare lo slancio di queste espressioni tipiche del terroir. E a una simile sorte non è certo sfuggito lo schioppettino, un vino che ha rischiato seriamente l’estinzione attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando si era persa perfino l’uniformità dei criteri produttivi: c’era chi lo vinificava con un marcato residuo zuccherino, ad esempio, e ancora oggi qualcuno, attingendo a lontani ricordi, è convinto che si tratti di un vino da dessert.

La risalita dello schioppettino è stata lunga e faticosa come una camminata in montagna sotto il sole. Ci volle una richiesta del consiglio comunale di Prepotto per arrivare al ritorno della varietà autoctona nell’elenco dei vitigni autorizzati. Un risultato figlio della spinta di quegli agricoltori che non avevano voltato le spalle alla tradizione: uno di questi era Paolino Marinig, che con la sua azienda a Poianis di Prepotto nel 1982 meritò il prestigioso Risit d’Aur nell’ambito del premio Nonino. Del resto Prepotto è l’indiscussa patria di questo vitigno, se è vero che dei 132 ettari vitati quasi un terzo, 40, è coltivato all’interno dei confini comunali.