Caro Johanniter, vitigno del futuro di Mara Micolino Preludio di racconti entusiasmanti, ricordi vividi scanditi dall’inevitabile tenera malinconia di chi quei momenti li ha vissuti e anche un po’ subiti: chiunque provenga dalla montagna, ha sentito questa domanda almeno una dozzina di volte. Ciascuno custodisce dentro di sé l’immagine di come doveva essere “a quei tempi” quando la neve in paese arrivava presto e abbondante e isolava case e intere comunità, ma allo stesso tempo univa e metteva tutti al lavoro, insieme. “Te le ricordi le nevicate di una volta?” Quella del 12 ottobre 2013 a Còredo in Val di Non, Nicola Biasi se la ricorda bene. Timida e precoce quasi come ai vecchi tempi, ma tenace quanto basta da attecchire sui primi grappoli di Johanniter, pronti ad essere raccolti quella mattina per la prima volta. Inizia così l’avventura del Vin de la Neu – in dialetto trentino noneso è vino della neve – nato e cresciuto a quasi 1000 metri di altitudine da vigneto piantato su un terreno di 990 metri quadri incastonato tra le Dolomiti. Si trova in una terra ricca di materia organica intervallata dalla roccia Dolomia che accoglie le barbatelle e garantisce alle radici un equilibrio perfetto tra drenaggio e umidità. Una scommessa per l’enologo friulano Nicola Biasi, che all’epoca era amministratore delegato delle tenute della famiglia Allegrini in Toscana, dov’era arrivato da giovanissimo in seguito a due esperienze in Australia e in Sudafrica e da dove partiva spesso per tornare in Trentino, casa dei nonni paterni e luogo d’infanzia preferito. Da Montalcino a Còredo la strada è lunga e distende i pensieri, ma è anche troppa per chi ha idee chiare e il coraggio di rischiare: Nicola decide di espiantare il meleto del nonno in favore di una vigna ad alberello bilaterale, fitta e stretta perché lo spazio è poco, ma così ben organizzata da ospitare, ordinati e arieggiati, 8 grappoli per pianta (circa mezzo chilo d’uva). “Ero affascinato dal genitore Riesling, ma non l’avevo mai assaggiato prima”, racconta Nicola relativamente alla scelta dello Johanniter, un vitigno tra i resistenti di cui si parla poco, perché “è il più difficile da gestire e matura tardi, il che complica le cose in montagna dove generalmente le temperature sono più basse”. Ma sono le sfide più complesse a regalare le più grandi soddisfazioni: lo Johanniter è infatti tra le varietà più resistenti alle malattie fungine come oidio e peronospora e in questa zona della Val di Non ha trovato il suo terroir ideale. Due dal temperamento simile – l’enologo e il vitigno – quest’ultimo creato nel 1968 all’Istituto statale di viticoltura di Friburgo in Germania e autorizzato in Italia per la produzione proprio nel dicembre 2013. Parrebbe quasi un segno del destino. Grazie alla resistenza fungina lo Johanniter permette di ridurre al minimo i trattamenti annuali in vigna: 1–2 contro 10–15 che normalmente sarebbero necessari su una varietà tradizionale. Il risultato è una viticoltura più sostenibile e rispettosa dell’ambiente nonché del terreno e si riduce, secondo la certificazione della Carbon foot Print ottenuta dalla rete d’impresa Resistenti Nicola Biasi, l’emissione di CO quasi del 40% ogni anno. Una possibile svolta enologica, dunque, data anche dalla maggiore tolleranza di questo vitigno al clima montano anche se ormai mitigato dall’innalzamento delle temperature: i gradi durante l’inverno scendono raramente di troppo sotto lo zero e il rischio di gelate tardive non ha mai preoccupato Nicola. Questo induce a pensare all’avvento di una viticoltura di montagna in luoghi dove era impossibile immaginarla fino a pochi decenni fa, ai tempi delle grandi nevicate. L’uva imbiancata raccolta quel 2013, premia Nicola Biasi e il papà Oscar con una produzione di 300 bottiglie, mai commercializzate, ma utili a confermare che la strada era percorribile e valeva la pena farla. Così nel 2017 altre mele sono costrette a immolarsi: al primo vigneto di fronte a casa si aggiunge un rettangolo di 0,25 ettari dove lo spazio permette un impianto più disteso dei filari. Le bottiglie salgono a 491, destinate ad aumentare ancora fino a raggiungere le odierne quasi mille. 2 L’aumento di produzione affianca quello strutturale della cantina e il rinnovamento delle attrezzature con l’acquisto di una pressa da 5 quintali adatta alle piccole produzioni e di vasche in cemento non vetrificato, utilizzate per una prima chiarifica. In barrique di rovere francese da 225 litri invece il Vin de la Neu fermenta, svolge la fermentazione malolattica e riposa per 11 mesi prima di abbandonarsi all’abbraccio della bottiglia renana. La sostenibilità non si ferma alla vigna ma passa dalla cantina attraverso la scelta di utilizzare per la vinificazione contenitori in grado di garantire autonomamente una temperatura costante senza l’ausilio di impianti per la refrigerazione altamente dispendiosi. La novità del 2024 – oltre all’inaugurazione della neonata cantina aperta alle visite – sarà l’impianto di ulteriori alberelli per un totale di 0.8 ettari e una stima di 2500 bottiglie prodotte nel 2026, soglia che Nicola non intende superare per dedicargli l’attenzione che meritano, compatibilmente con il suo lavoro da consulente in diverse cantine d’Italia. Il mio primo incontro con lo Johanniter avviene una domenica mattina di dicembre. A Còredo sono da poco passate le 11 e il sole illumina per intero i minuti alberelli appena educati dalla potatura invernale. Silenzio fitto, freddo secco impreziosito da un soffice venticello. Di certo non è immediatamente intuibile come da una vigna così piccola possa nascere la grandezza che avrei ritrovato, poco più tardi, nel calice. La ceralacca bianca arricchita nella parte superiore della capsula da un candido fiocco di neve, scopre il tappo del Vin de la Neu 2020. È color giallo lucente con delicate punte di verde. Frutta a pasta gialla e agrumi canditi sono le prime lusinghe al naso. Il burro morbido e la noce che irrompono subito dopo confermano la presenza della malolattica svolta non solo perché a Nicola piace tanto, ma anche per smorzare l’altissima acidità che caratterizza il vitigno. L’assaggio è citrino e diretto, l’acidità vibrante e persistente accompagna al finale più rotondo di confetture e frutta matura. La chiusura è di pepe bianco. Annusare l’annata 2015 è come attraversare una città di mare alle 4 di mattina, quando l’aria è frizzante ma addolcita dal profumo dei forni accesi delle panetterie, pronti per i primi cornetti caldi della giornata. Intenso anche il colore con sfumature dorate rispetto al fratello minore. In bocca è avvolgente e pieno, l’acidità è attenuata ma ancora ben presente; invoglia a infiniti assaggi. Il finale è pura mela cotogna dai riflessi malinconici: non vorrebbe congedarsi mai e tu speri non lo faccia. La bottiglia numero 089/508 se ne va via leggera lasciando la consapevolezza di una nuova rivoluzione qualitativa di cui è orgogliosa messaggera: il Vin de la Neu è stato il primo vino da vitigno resistente ad aver ricevuto importanti riconoscimenti, in Italia e non solo; il primo ad aver dimostrato come una viticoltura di qualità sia possibile, anche attraverso l’utilizzo di questi vitigni. Il primo, ad aver aperto l’orizzonte a una possibile reale sostenibilità enologica. Caro Johanniter, sono quasi le 16 e sei già avvolto da un solenne imbrunire. Il vento è sceso e la temperatura è vicina allo zero, ma sembri non percepirlo. Volevo dirti che sei un piccolo miracolo: una speranza per il futuro, un desiderio avverato. E per fortuna c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di farti esprimere.