Ros maris. Morello Pecchioli Il nome è assai poetico: ros maris, rugiada del mare. Furono i Romani a dare questo nome alla piantina aromatica che cresce spontanea lungo le coste del Mediterraneo, il rosmarino. L’arbusto sempreverde ha nel DNA il grande pelago racchiuso tra le colonne d’Ercole. Il rosmarino spicca nella macchia mediterranea per la fragranza delle foglie aghiformi e per i fiorellini cerulei che dalla primavera all’autunno riverberano l’azzurro del mare. Pianta magica, posta sotto il segno del sole, ha ispirato miti e leggende. Anche cristiane. Una di esse narra che in origine i fiori del rosmarino erano bianchi. Divennero color del cielo quando la Madonna, durante la fuga in Egitto, lasciò cadere il suo mantello su una pianta di rosmarino (può arrivare fino ai due metri di altezza) che nascose la Sacra Famiglia ai soldati che la inseguivano. È una pianta ricca di significati. Simboleggia l’amore, la fedeltà, la fecondità, l’immortalità e il ricordo. I Romani bruciavano rametti di rosmarino nei bronzei bacili dei templi per onorare gli dei col soave profumo che emana. Lo intrecciavano col mirto per addobbare le cerimonie nuziali e confezionare le coroncine degli sposi; lo ponevano sulle culle dei figli neonati per proteggerli da spiriti cattivi e influenze malvagie. Lo usavano, infine, nei riti funebri per raccomandare il caro estinto alle divinità dell’oltretomba. Era una sorta di lasciapassare per l’eternità. Prima di loro facevano altrettanto gli Egizi e i Greci. I primi lo consideravano, per la proprietà di rimanere a lungo fresco anche se reciso, simbolo di immortalità. Per questo motivo ponevano rametti della pianticella accanto ai defunti. Orazio raccomandava questa pratica di pietà: “Se vuoi guadagnarti il favore dei defunti, porta loro corone di rosmarino e di mirto”. Il rosmarino, insomma, accompagnava i cittadini dell’urbs caput mundi dalla culla alla bara, transitando dall’amore alla devozione religiosa, dalla medicina all’anfora di vino che aromatizzano con la rugiada del mare. La storia d’amore più bella e più dolorosa la racconta Ovidio nel quarto libro delle Metamorfosi. Il poeta di Sulmona narra il mito di Leucotoe, la bellissima figlia di Orcame, re di stirpe achemenide, della quale s’innamora Apollo che sotto mentite spoglie entra nel letto della disgraziata giovinetta e la seduce. Il padre, venuto a conoscenza del fatto da Clizia, ninfa amata e abbandonata dal seduttore divino, ancora più infame di questo non ascolta ragioni e fa seppellire viva la disgraziata figlia. Quando Apollo lo viene a sapere, la tragedia è ormai compiuta e al dio del sole non resta altro da fare che irradiare la tomba dell’infelice giovinetta con i suoi raggi. Il calore dell’astro fa spuntare sulla terra della sepoltura un profumatissimo arbusto dai fiorellini azzurri: il rosmarino. Della serie “quando l’amore è tragedia” ecco William Shakespeare. Il drammaturgo credeva al mito del rosmarino simbolo del ricordo. Nel quarto atto dell’Amleto, troviamo Ofelia, perduta ormai nell’abisso della follia, che porge, vaneggiando, un rametto come pegno d’amore al principe di Danimarca: “Ecco del rosmarino che è per la rimembranza, amore, te ne prego, ricordami”. Fantasie del bardo inglese? A quanto pare no. Una ricerca del Dipartimento di Psicologia della Northumbria University dà ragione allo scrittore e agli inglesi che chiamano il rosmarino “erba della memoria” perché, narra un’antica leggenda britannica, se si annusa il suo persistente profumo tornano alla mente fatti del passato scordati da tempo. La ricerca è stata effettuata su 150 persone di oltre 65 anni. Ebbene, gli anziani che erano stati alloggiati nelle stanze aromatizzate al rosmarino ne erano usciti più lucidi e con la memoria più sveglia. L’esperimento non precisa se il profumo del ros maris ha titillato, oltre alla memoria, anche il loro testosterone. Amore e morte e rosmarino sono presenti nel poemetto in dialetto veronese Giulieta e Romeo di Berto Barbarani. Ancora una volta un rametto dell’erba aromatica è il tragico testimone della tenera passione che lega due giovani: Giulietta immersa nel sonno della morte apparente procuratale da frate Lorenzo per favorire la sua fuga con Romeo, sogna di avere accanto l’amato bene e di offrirgli un rametto di rosmarino: “Tolì, tolì (prendete, prendete) per vostra garansìa,/ tolì sta rama del me rosmarin”. Come finì lo sanno gli innamorati, i fidanzati, i morosi, attuali ed ex, che arrivano a Verona da tutto il mondo e calano come stormi di colombi nel cortile dei Montecchi per sognare sotto al (falso) balcone di Giulietta e farsi fotografare mentre palpano il bronzeo seno destro della loro eroina. Dopo milioni e milioni di palpate, di milioni e milioni di strofinate, il metallo dell’opera di Nereo Costantini ha ceduto qualche mese fa e la povera Giulietta, come un’amazzone, è rimasta con un seno solo. Il rosmarino è un’erba tosta, meglio, un arbusto, che si porta addosso il DNA del Mediterraneo. Chiudi gli occhi, annusi e ti ritrovi il sapore dell’estate al mare. Oltre che per le virtù amorose, il rosmarino vanta parecchie proprietà salutari. Lo dice un proverbio “A dir del rosmarino le virtù ci vorrebbe una vita e anche di più” e lo rivela il nome scientifico: Rosmarinus officinalis. Officinalis è l’aggettivo, il diploma di laurea, che viene concesso a ogni erba ad ogni pianta dotata di proprietà terapeutiche, usata nell’industria farmaceutica e in quella cosmetica. Come il rosmarino che fin dall’antichità era conosciuto per le straordinarie proprietà salutari. Ippocrate, Plinio, Dioscoride che ne scrisse nella De ars medica, e altri medici e scienziati, anticipando gli studi che continuano con ben altri mezzi i ricercatori moderni, lo raccomandavano ai loro pazienti. È provato che l’arbusto definito re della macchia mediterranea tonifica la memoria, combatte i dolori muscolari, favorisce la circolazione del sangue, è diuretico, antisettico e digestivo e contrasta le affezioni delle vie respiratorie. Non sono passati molti anni da quando i nostri vecchi bruciavano rametti sulle stufe per far respirare quell’aroma canforato agli ammalati di tracheite, bronchite, faringite o di semplice raffreddore, e farli stare meglio. Il rosmarino ha la fama di combattere la malinconia: pare che l’aroma acuto e penetrante aiuti le persone a risollevarsi dalla tristezza. Nel medioevo i maghi consigliavano di riporre sotto il cuscino un ramoscello di rosmarino per favorire sogni belli e allontanare gli incubi. Era una sorta di acchiappasogni. Nel Medioevo veniva usato per scacciare spiriti maligni e streghe. Per molto tempo è stato considerato un mezzo scaramantico per difendersi da forze maligne e malattie. Secondo la medicina popolare medioevale il rosmarino agiva anche su muscoli e pelle grazie alle straordinarie capacità rassodanti e rigeneranti. Isabella d’Ungheria ne è la prova. Le belle signore che guardandosi allo specchio scoprono inorridite una ruga, non si lascino tentare di “sbianchettarla” col botulino o, peggio, ricorrendo al bisturi dimenticando gli effetti ittici che i ferri hanno avuto su attrici, cantanti e donne di spettacolo: labbroni come il pesce boccalone, zigomi che arrivano alle tempie e profili da dentice. Meglio far ricorso alla pozione di Isabella d’Ungheria: un distillato di rosmarino e alcol che, assicura la storia, fa miracoli. Ecco come ce la tramandano le cronache dell’epoca. Corre l’anno 1370. La settantaduenne regina Isabella, tormentata da lancinanti dolori reumatici, s’affida alle cure di un alchimista che le prepara una lozione a base di rosmarino raccomandandole di frizionare bene, tutti i giorni e con mano prodiga, le parti del corpo doloranti. La regina, fervente religiosa, obbedisce al suo “farmacista”, ma Isabella, fedele al motto “aiutati che il ciel t’aiuta” per garanzia aggiunge alla pozione una buona dose di preghiere. Furono le orazioni o fu il rosmarino a operare il miracolo non si sa. Fatto sta che Isabella non solo guarì dai reumatismi, ma si ritrovò con la pelle di una ventenne, senza macchie e senza rughe. L’“acqua della regina Isabella”, così venne chiamato il miracoloso distillato, la ringiovanì a tal punto che il granduca di Lituania si fece avanti a chiederle la mano. Qualche storico mette in dubbio la vicenda, ma è vero che per secoli la pomata dell’alchimista andò a ruba: le nobildonne sugli “anta” e chi soffriva di dolori reumatici ne fecero ampio uso. Luigi XIV, il Re Sole, adoperò l’acqua della regina Isabella per curare la gotta. L’Acqua della regina d’Ungheria dona davvero pelle giovane e vellutata? È vero che combatte la calvizie incipiente? Mah... Qualcosa di buono, però, deve pur fare se dame, gentildonne, signore e signori che specchiandosi vedono il cranio sempre più lucido, l’hanno usata nel corso dei tempi e la usano ancor oggi trovandola in internet a 13 euro col nome di Caudalìe “ispirato all’elisir di giovinezza della Regina Isabella di Ungheria”. C’è anche su Amazon a 13,58 euro, spedizione inclusa, ma per il momento non è disponibile. E la si trova, ovviamente, nelle erboristerie. La mano sul fuoco sulle sue capacità estetiche e rigeneranti della chioma non ce la mettiamo, ma siamo pronti a metterle entrambe sulle straordinarie proprietà gastronomiche del rosmarino. Abbiamo visto che nella Roma del primo impero il rosmarino si usava solo per aromatizzare il vino. Apicio usava tutt’altre erbe aromatiche per preparare le salse: origano, menta, aneto, cumino, ginepro, timo, finocchio… Fu Galeno, medico romano del secondo secolo dopo Cristo, a sdoganarlo in cucina consigliando di associarlo ai cibi per il suo potere digestivo. Da allora il rosmarino è diventato prim’attore tra i fornelli. Per il suo odore intenso e la piacevolezza del gusto si usa in moltissime preparazioni, dagli antipasti ai primi piatti, dai secondi al dessert. Rilascia aromaticità e freschezza a carni e pesci, soprattutto cucinati al forno o arrosto in casseruola. Viene usato per insaporire pane, grissini e focacce all’olio. Profuma risotti, paste e fagioli, trippe. È fondamentale negli spaghetti al grillo (la farina di insetti non c’entra assolutamente), nelle patate arrosto o al forno, sulla pizza al rosmarino e pomodorini o su quella al rosmarino e olive taggiasche. Col rosmarino triturato fine fine si insapora il sale e con un suo ramoscello l’olio extravergine d’oliva. Carni e pesci alla griglia, spennellati con una fraschetta di rosmarino fresco intinta in olio buono, acquisteranno il giusto tocco di squisitezza. Vade retro salsa da barbecue, vadite retro sbrodeghezzi esterofili. Il rosmarino ispira poeti e cantanti. La famosa siepe dell’Infinito di Giacomo Leopardi, a Recanati, era fatta di piante antiche e povere: cespugli di rosmarino e gigli selvatici. Il poeta al di là da quella si figurava interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete, ma al di là di quegli arbusti di rosmarino che si proiettavano verso l’Oriente, a una quindicina di chilometri da Recanati, c’era il mare. “Così tra questa/ immensità s’annega il pensiero mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Il poeta, buongustaio, amava il profumo del rosmarino anche a tavola: il cuoco napoletano Pasquale Ignarra gli preparava piatti intriganti con gli odori del rosmarino e del timo. Una capacità gastronomica che la giornalista Licia Granello riconosce alla pianticella: “Il rosmarino è un’erba capace di cambiare i connotati ai piatti che incontra. Un’erba tosta, meglio, un arbusto, che si porta addosso il DNA del Mediterraneo. Chiudi gli occhi, annusi e ti ritrovi il sapore dell’estate al mare”. Da Leopardi a Federico García Lorca. Emozionanti i versi del poeta spagnolo: “Api d’oro/ cercavano il miele./ Dove starà il miele?/ È nell’azzurro/ di un fiorellino,/ sopra un bocciolo/ di rosmarino”. Altrettanto suggestivi, nel Canto del servo pastore, i versi di Fabrizio De André: “Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura/ dove cammina il mio destino c’è un filo di paura”. Più realista Zucchero che in Menta e rosmarino, canzone nata per raccontare la fine dell’amore tra lui e la moglie, usa le due erbe aromatiche come metafora di due spiriti diversi: “Ci incontreremo stasera/ menta e rosmarino/ che ho preso a calci le notti/ per starti più vicino”. Proponiamo, infine, alle fanciulle che la vogliamo sperimentare questa antica pratica divinatoria popolare: intrecciando il 20 gennaio, vigilia di Sant’Agnese, un rametto di rosmarino con uno di timo e ponendoli vicino al cuscino dovrebbero vedere in sogno il loro futuro sposo. Una raccomandazione: il cellulare dev’essere spento e posto in un’altra stanza. E se non lo dovessero sognare? Rimarranno zitelle? A parte il fatto che la singletudine non spaventa più nessuna, siamo certi che le ragazze del giorno d’oggi non soffrono della sindrome di Cenerentola e abbiano tante altre qualità per non rimanere in perenne attesa di un principe azzurro che olezza di canfora e appare solo in sogno.