Ansonica.
La sfida del Giglio.

Fabio Rizzari

Parafrasando una nota poesia di John Donne, si può affermare che “nessun vino è un’isola”, perché il vino è condivisione, brindisi, unione a cibo e persone. Molti vini, tuttavia, sono isolani di nascita. Quelli delle grandi isole mediterranee possono mostrare caratteri molto differenti tra loro: la Sicilia enoica è un piccolo continente che conta tipologie diversissime e talvolta antitetiche, e lo stesso vale per la Sardegna.


I vini delle piccole isole mostrano invece spesso una fisionomia comune, sono più strettamente imparentati. E non soltanto per mere questioni di estensione territoriale. Le piccole isole possono trovarsi solitarie in un braccio di mare o far parte di un arcipelago, ma non raramente le loro vigne possiedono caratteri peculiari e distintivi. Per fare un singolo esempio, una Malvasia di Vulcano ha in media toni più ombrosi, minerali, profondi rispetto a una Malvasia di Salina, che è (sempre in media, ovviamente) più leggera, più luminosa, più immediata.


L’isola del Giglio, ventuno chilometri quadrati che fronteggiano il promontorio dell’Argentario, in provincia di Grosseto, è famosa per la sua scontrosa bellezza, ma non per le sue vigne e i suoi vini. Qui la viticoltura non ha nulla di storicamente celebrato. Si è sempre mossa, al contrario, in un cono d’ombra, ignota o quasi agli stessi toscani.


Per secoli i vignaioli hanno strappato ai forti declivi porzioni di terra da coltivare, trattenuta in greppe, ovvero in classici terrazzamenti cintati da muri a secco. Fino grosso modo agli anni Settanta del secolo scorso la varietà principale, l’ansonica (ansonaca nella parlata locale, inzolia in Sicilia), con la sua rustica robustezza si prestava a lavorazioni altrettanto rustiche, dando vita – stando alle testimonianze di chi non è più giovanissimo – a bianchi poderosi e squadrati. Bianchi non proprio eleganti o freschi, piuttosto dei campioni di incisiva ricchezza alcolica, più “larghi” che dinamici.