Cinque infinite
Terre.

Massimo Zanichelli

Quella striscia non più finita di case, di ville, di paesi, che si specchiano in mare, e si proiettano su fondo di colline verdeggianti coperte di ulivi e vigneti, interrotti a volta a volta da rupi ignude, pittoresche che si avanzano in mare. Antonio Stoppani, Il Bel Paese


Ogni volta che ci si lascia alle spalle Spezia (come la chiamano i locali), percorrendo la serpentina della litoranea per inoltrarsi lungo i frastagliati declivi delle Cinque Terre – gli insediamenti costieri fondati intorno all’anno Mille dalla popolazione della Val di Vara –, permangono, intatti e rinnovati, lo stupore e l’incanto. Si può conoscere la struggente, aspra bellezza di Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monterosso con l’auto lungo i tornanti a nastro che aprono sguardi impressionanti sulle loro coste (tra cui le celebri Costa de Sèra di Riomaggiore, Costa da Posa di Volastra e Costa de Campu di Manarola o i Tramonti di Biassa e di Campiglia); con il treno attraverso le gallerie scavate nella montagna; con il trenino a cremagliera nel vertiginoso digradare delle rupi e delle terrazze; a piedi, lungo impervi sentieri e mulattiere che s’inoltrano nel lussureggiante paesaggio mediterraneo; o in barca per rimanere rapiti dai prominenti prospetti. Tutt’attorno si staglia lo spettacolo di una viticoltura aggrappata alla roccia – estrema, radicale, irriducibile –, una viticoltura di montagna (l’Appennino la stringe da sopra) che si tuffa nel Mar Ligure, un mare cui è difficile accedere, che permea l’aria intorno, che si frange con le sue onde spumose sulle scogliere. Da Portovenere, altro luogo incantato, a Punta Mesco, è un susseguirsi mozzafiato di terrazze millenarie a perpendicolo sull’acqua, erette con muri a secco dal lavoro secolare dell’uomo, che ha disboscato i lecceti arrampicandosi a quote d’inimmaginabile fatica per sopravvivere e sfidare l’impossibile. L’orizzontalità delle pianete (“stretti rettangoli, strisce di terra coltivate a vigna” scriveva Mario Soldati in Vino al vino), oggi chiamate piane, ma anche fasce o cian, contrasta con la verticalità delle pendenze.


Tutto è accidentato, tutto è ripido, le scale punteggiano il paesaggio come i borghi e le case: i gradoni delle vie e delle abitazioni hanno spesso bisogno di un corrimano. L’emergenza rocciosa entra perfino nei locali. Le vigne si misurano in metri quadri (l’ettaro è una dimensione fuori scala), perché qui tutto, dal punto di vista dello spazio, è ridotto, circoscritto (poderi, case, cantine, paesi) ma ha il respiro dell’infinito. I borghi aggrappati alle scogliere, le case colorate, i cimiteri in posizione panoramica, i rosoni medievali delle chiese, il profumo della macchia mediterranea, gli azzurri e i blu del cielo e del mare scandiscono tra dislivelli in ogni dove le principali ricorrenze di questi cinque luoghi di sudore e splendore. I vini Doc del territorio sono due, prodotti in percentuali variabili con i vitigni bosco, albarola, vermentino più altre varietà locali minoritarie come ruzzese, scimiscià, piccabùn, brujapagià e frappelà: un bianco salmastro e il celebre, irresistibile Sciacchetrà. Quest’ultimo, chiamato tradizionalmente Rinfursà o Refursà (Rinforzato, per la tecnica dell’appassimento delle uve), deve il proprio nome dalle parole dialettali sciacàa, “schiacciare”, e trà, “in mezzo”, ma anche “trarre” o “mettere da parte” in relazione sia all’invecchiamento (la Riserva può essere venduta dopo tre anni dalla vendemmia) sia all’abitudine di un tempo di conservarlo come vino “diplomatico” da aprire in circostanze speciali (la produzione è tuttora di poche, preziose centinaia di mezze bottiglie per ogni cantina). Il vitigno principale dell’uvaggio è il bosco, vocato all’appassimento per la buccia spessa e il grappolo spargolo. Come già raccontava Soldati, i grappoli appassiti vengono sgranati e spremuti a mano, “tra i polpastrelli del pollice, dell’indice e del medio: acino per acino”: “le macchine non servono” perché l’uva “è troppo appiccicosa, quasi candita”.