Un tuffo a Piscinas. Betty Mezzina È l’altra Sardegna, quella riservata agli amanti della natura e dei silenzi, dove ritemprarsi tutto l’anno seguendo ritmi lenti e rigeneranti, lontani da barche milionarie ancorate in baie color smeraldo. Qui c’è la magia di uno dei complessi dunali più alti d’Europa, l’energia impetuosa del vento, il profumo intenso della vegetazione sarda, il contatto ravvicinato con la fauna locale ma anche la testimonianza tangibile del suo passato minerario. E a distanza di qualche decina di chilometri ci si imbatte in una viticoltura antica dove vitigni solari e vini estremi esprimono tutta la loro profonda anima mediterranea. Siamo nella parte sud-occidentale dell’isola sarda, esattamente nel tratto denominato Costa Verde, dove tra le altre perle riluce luminosa quella delle , località che ricade nel territorio del comune di Arbus (provincia Sud Sardegna). Un ambiente naturale unico, chiamato anche il “piccolo Sahara italiano”, oppure come lo definisce il FAI: “Una delle più grandi meraviglie dell’intero Mediterraneo”. Non stupisce, infatti, che di recente tanti artisti lo abbiano scelto per girare numerosi videoclip, anche se rimane celebre soprattutto come set del film “The Black Stallion”, girato nel 1978 dal regista Carroll Ballard e prodotto da Francis Ford Coppola, dove le colline sabbiose fanno da sfondo a memorabili cavalcate. Dune di Piscinas Piscinas rappresenta un vero e proprio deserto in miniatura, un’oasi selvaggia di circa 28 chilometri quadrati caratterizzata da imponenti dune dorate che terminano con una vasta spiaggia inserita tra le più belle del mondo nel 2017 dal National Geographic. Gradualmente l’azione modellante del maestrale ha trasportato la sabbia sempre più verso l’interno, andando a formare dossi sabbiosi gradatamente più ampi tanto in altezza quanto in estensione. Attualmente queste “dune attive” si elevano per circa cento metri, misura che cambia costantemente a causa dell’erosione e dei fenomeni eolici, si protendono verso l’interno per circa 2 km verso l’interno e si allungano per 7 km lungo la costa. Un piccolo frammento d’Africa in Italia che, a differenza dei grandi deserti completamente privi di vegetazione, è impreziosito dai cespugli della macchia mediterranea che si sono adattati perfettamente a un ambiente così ostile. Predominano lentischi, ginestre, gigli di mare, sparti pungenti, euforbie, carote spinose, olivastri, distese di tamerici e giunchi nei pressi dei piccoli corsi d’acqua ma soprattutto i caratteristici ginepri dai tronchi contorti e piegati dalla forza del vento. In questo singolare ecosistema, le dune di Piscinas ospitano anche una fauna di grande rilevanza: non è improbabile, infatti, che all’alba o al tramonto i cervi sardi scorrazzino tra le dune, lasciando ai visitatori diurni le loro inconfondibili orme sulla sabbia; anche la tartaruga marina della specie Caretta caretta ha trovato in questo tratto di costa incontaminato l’habitat ideale per deporre le uova durante le prime notti estive. Nonostante sia chiamata Costa Verde – dal colore degli arbusti diffusi su tutta la zona – l’area di Piscinas potrebbe essere definita anche la costa del silenzio, quello dei villaggi, molti dei quali abbandonati come Ingurtosu, Gennamari, Montevecchio, che a lungo hanno rappresentato la grande epopea dell’epoca mineraria. Qui archeologia industriale e natura si incontrano nei vagoni abbandonati sulla spiaggia, un tempo utilizzati per il trasporto del materiale estratto e da imbarcare. Direttamente sulle dune dorate di Piscinas si trova anche il vecchio magazzino ottocentesco delle vicine miniere di Ingurtosu, dichiarato Monumento Nazionale nel 1985, successivamente trasformato in colonia estiva per i figli dei minatori. Attualmente ospita un elegante albergo, perfettamente in sintonia con l’ambiente circostante. Non c’è zona d’Italia che non produca vino e nemmeno questo angolo della Sardegna si sottrae a tale tradizione, proponendo ai visitatori, oltre a escursioni guidate tra la macchia mediterranea o rilassanti giornate al sole, vitigni singolari ma soprattutto rare espressioni di un’enologia estrema. Nel raggio di qualche decina di chilometri dalla spiaggia di Piscinas, la stessa solarità delle dune si trova riflessa nei vini della denominazione d’origine “Campidano di Terralba” o “Terralba” all’interno della quale ricade anche il comune di Arbus. Il vitigno di riferimento è il bovale, presente un po’ su tutta l’isola ma dominante in questa doc con una percentuale minima dell’85%; nel Mandrolisai la presenza è inferiore ma pur sempre caratterizzante al 35%. È un’uva affascinante con origini ancora ignote anche se tutto lascia supporre che il bovale provenga dalla penisola iberica – origine dovuta alla dominazione spagnola durata quattro secoli fino al 1708 – sorte che condivide con buona parte delle altre varietà sarde. Nel tempo si sono formate due varietà distinte: il bovale sardo e il bovale grande dei quali le recenti indagini genetiche hanno dimostrato la corrispondenza rispettivamente ai vitigni spagnoli graciano e mazuelo (carignan), accertando la sostanziale diversità varietale delle due uve. Molti i sinonimi locali con cui è conosciuto il bovale sardo: muristellu o muristella, bovaleddu, bovale pitticcu, mentre il bovale grande è detto anche bovale di Spagna o bovali mannu. Il clima mediterraneo con estati calde e asciutte e i venti provenienti da nord ovest e da ovest, consentono alle uve di maturare lentamente e completamente, conferendo al calice di bovale le consuete caratteristiche organolettiche fatte di richiami di frutta rossa matura, un’ottima acidità e talvolta anche tannini decisi che ben bilanciano gradazioni alcoliche piuttosto elevate; la netta pienezza gustativa e struttura lo predispongono anche a buoni affinamenti. Non c’è zona d’Italia che non produca vino e nemmeno questo angolo della Sardegna si sottrae a tale tradizione, proponendo ai visitatori, oltre a escursioni guidate tra la macchia mediterranea o rilassanti giornate al sole, vitigni singolari ma soprattutto rare espressioni di un’enologia estrema. Cosa vedere Arrivare a Piscinas non è comodissimo, bisogna mettere in conto curve e tornanti, in compenso lungo la strada meritano una sosta i “villaggi fantasma” degli ex insediamenti minerari. Imperdibile , frazione di Arbus, da cui dista circa dieci chilometri, un tempo una delle miniere più grandi e produttive dell’isola. Oggi si presenta come un villaggio da far west, diroccato e deserto, con ruderi di case, impianti, pozzi, enormi cumuli di materiali di scarto, carrelli arrugginiti, resti di cantieri e laverie. Ingurtosu Le umili dimore dei minatori contrastano con l’imponente palazzo in granito della direzione, detto “castello”, costruito (1870) in stile neomedievale e caratterizzato da un’elegante balconata chiusa a vetri. Sono visibili botteghe, posta, edicola, scuola elementare, ospedale e persino il cimitero; da visitare la chiesetta di Santa Barbara, patrona dei minatori. Sulla strada tra Arbus e Ingurtosu, sono visibili anche villa Wright e villa Ginestra, dimore, rispettivamente, del vicedirettore e del presidente della “Pertusola”, compagnia di estrazione inglese che gestiva le miniere. Allontanandosi qualche decina di chilometri dalle dune di Piscinas, si entra nella terra del solare carignano, la cui produzione è concentrata tra il Sulcis e l’isola di Sant’Antioco. Qui maestrale, scirocco, aria, luce, mare e sale conferiscono al vino un fascino mediterraneo senza pari, il tutto completato dal patrimonio inestimabile di vigneti a piede franco che affondano le loro profonde radici nella sabbia del mare. Sono passati esattamente 40 anni dalla prima annata di “Terre Brune”, l’etichetta che ha fatto uscire dal limbo e acceso i riflettori sul carignano, vitigno considerato per larga parte del Novecento nient’altro che uva da taglio. Protagonisti di questa rinascita furono il visionario presidente della cantina Santadi, Antonello Pilloni, e il celebre enologo di origini piemontesi, Giacomo Tachis, chiamato a imprimere una vera e propria svolta enologica in quest’area della Sardegna. In piena epoca dominata dalle uve internazionali, Tachis puntò sul vitigno principe del territorio: il carignano, la vite che disegna il profilo delle dolci colline del misterioso e selvatico Sulcis, decretandone un successo indiscusso fino ad oggi. Da allora tante aziende si sono cimentate con ottimi risultati con le vecchie viti di carignano (bovale grande), in gran parte allevate ad alberello e a piede franco, portando sul mercato, insieme alla prestigiosa zona del Priorato, uno dei vini di maggior appeal basato su questa varietà spagnola. Indubbia attrazione turistica è rappresentata dalle antiche vigne dell’isola di Sant’Antioco che si manifestano in tutto il loro splendore ai visitatori dopo aver attraversato il sottile istmo lungo 5 chilometri che la collega all’entroterra. Piantati direttamente nella sabbia, gli alberelli ultracentenari crescono liberi senza nessun sostegno e forti abbastanza da affrontare il vento sferzante; le rese per ettaro sono bassissime ma di qualità eccellente grazie alle maturazioni ottimali raggiunte anche per effetto del riverbero della luce sulla sabbia. Camminando tra le vigne non è improbabile che i piedi affondino fino a metà gamba! Il perfetto equilibrio tra clima, terreno, luce e cura certosina dei viticoltori genera vini caldi e avvolgenti, eleganti ed equilibrati con tannini morbidi e raffinati. Cosa assaggiare Nella zona di Arbus è da provare il casu axedu (formaggio acido da gustare col miele), su casu friscu (usato per arricchire minestre e zuppe) e l’immancabile ricotta, usata nei dolci locali, ma ottima anche con zucchero e scorza di limone. A tavola non manca mai il pane pistoccu – più secco e spesso del carasau – adatto per zuppe e bruschette, e il pane moddizzosu dalla forma rotonda, mollica morbida e crosta esterna croccante. Singolari le lorighittas (orecchini), pasta che deve il nome dalla tipica forma ad anello, già presente in una testimonianza scritta del XVI secolo. Da non perdere la zuppa di pesce, qui chiamata cassola sarda, che a differenza di quella milanese, utilizza tutto il pesce misto della Costa Verde. Ma il viaggio in questa zona della Sardegna non sarebbe completo senza percorrere la via che conduce verso e la sua , vera punta di diamante enologica dell’isola, la risposta sarda allo Sherry ma senza fortificazione, prima Doc isolana nel 1971 e vino nobile, generoso quanto raro utilizzato dalle famiglie nelle ricorrenze più importanti. Attualmente si cimentano con la sua laboriosa elaborazione solo 7 cantine, come è possibile riscontrare durante la visita dell’Ecomuseo del Vernaccia di Oristano a Tramatza (OR). La produzione di questo vino è documentata sin dal 1327, quando viene menzionata come “varnaccia” nello statuto di Iglesias che regolava, fra tante cose di interesse pubblico, anche le attività dei tavernieri. La zona di produzione odierna si estende nella bassa valle del Tirso all’interno della quale si distinguono due tipi di terreni: i cosiddetti “gregori”, formatisi durante alluvioni antiche che presentano una scarsa fertilità, e i “bennaxi”, più vicini al fiume, profondi, freschi e di buona fertilità. Tuttavia, per quanto possano essere importanti il suolo e habitat oristanese, la vernaccia deve la sua singolarità principalmente alle specifiche pratiche enologiche attraverso le quali è ottenuto. Il vino dopo la fermentazione è trasferito in contenitori di castagno o rovere, ma non si tratta del classico passaggio in legno perché le botti rimangono scolme tra il 10 e il 20% della loro capienza. Grazie al microclima e alla presenza di lieviti saccharomyces cerevisiae, si forma in superficie un velo dal colore biancastro chiamato flor che proteggerà il vino da un eccesso di ossidazione nel lungo corso della lunga maturazione. Oristano vernaccia I lieviti, grazie all’aria presente nelle botti, utilizzano l’alcol etilico per produrre sostanze che caratterizzeranno poi il prodotto finale; inoltre, l’evaporazione dell’acqua, favorita dalla porosità delle botti, agevola la concentrazione, elevate gradazioni alcoliche e ricchezza gustativa. La vernaccia rappresenta un perfetto aperitivo, magari accompagnato da tartine con la bottarga locale o con un pezzetto di Fiore sardo stagionato o semplicemente degustato ammirando un tramonto dorato, come il colore del vino, in compagnia o in “solitudine selvaggia”, come direbbe la scrittrice sarda Grazia Deledda. Luogo da raccontare Non solo per le dune di Piscinas, Arbus è conosciuta nel mondo per i coltelli – “arresojas” in dialetto locale – compagni inseparabili dell’uomo che popola le campagne sarde e considerati una specie di prolungamento della mano del pastore. L’arnese nasce sostanzialmente con l’attività, umana come testimoniano le lame di selce e ossidiana rinvenute presso alcuni nuraghi, del resto fu proprio l’abilità nella lavorazione del bronzo a determinare l’affermazione della civiltà nuragica per un millennio. Fra gli epigoni più importanti di questa tradizione ci sono gli della , famiglia che ha legato il proprio nome anche alla fondazione del Museo del Coltello Sardo, grazie al recupero dei locali di una vecchia casa direttamente adiacente al loro laboratorio. Dopo la scomparsa di Franco Pusceddu nel 2013, la coltelleria è seguita dai figli Giulia e Michele e dal collaboratore Massimo. La forma delle lame si basa sull’utilizzo: appuntite e allungate per i coltelli da scanno; più panciute e larghe per i coltelli da scuoio, i cosiddetti “alburesi”. L’azienda produce anche una tipologia con l’estremità piatta, priva di punta, modello che divenne molto diffuso nei primi del Novecento con la legge Giolitti che limitava notevolmente il porto di coltelli. I manici possono essere in corno di muflone, montone, bufalo, oppure in legno d’ulivo o ginepro, con decorazioni a tiratura limitata per amatori e collezionisti; insomma, uno strumento di lavoro divenuto un pregiato oggetto d’arte. Eredi Pusceddu “Coltelleria l’Arburesa”