Ori . Gin Paolo Bini Come Franciscus Sylvius de le Boë sia finito protagonista della storia del gin che fino a qualche anno fa si raccontava, rimane a tutt’oggi un mistero. L’esimio professore tedesco, accademico del più antico ateneo dei Paesi Bassi, svolgeva presso l’Università di Leiden studi legati alla sua fama di medico naturalista e sperimentatore pioniere della iatrochimica nel XVII secolo. Che egli conoscesse il jenever è probabile, altrettanto che nel tempo abbia sostituito nell’immaginario collettivo il quasi omonimo dott. Sylvius de le Boe (vissuto quasi un secolo prima), di certo l’aqua vitae a base cerealicola aromatizzata con bacche di ginepro si distillava in quei luoghi già da tempo. Non stiamo qui a ripercorrere con metodo filologico tutte le fasi che hanno portato il gin a essere indispensabile protagonista odierno sul bancone dei bar mondiali, ci interessano essenzialmente due aspetti: chiudere definitivamente con la storiella del dottore ancora troppe volte divulgata e ripercorrere nelle fasi salienti questa sorta di “ritorno alle origini” che vede oggi l’Italia come terra di assoluto riferimento qualitativo e creatività, vuoi per natura, vuoi per espressività geografiche estremamente circoscritte, vuoi per genio. Non ci concentreremo quindi sulla diffusione che ebbe grazie alla Compagnia olandese delle Indie orientali, nemmeno su quel “Dutch courage” che fece innamorare gli inglesi nella Guerra degli ottant’anni, neppure su Guglielmo III d’Orange re d’Inghilterra e il Distilling Act del 1690 che lo lanciarono verso l’evoluzione, la consacrazione europea e l’era moderna. Seguiremo invece a ritroso quella strada che lo fece poi nascere nelle Fiandre, originato da un’innovativa medicina sperimentale, pozione magica e terapeutica arrivata dal sud europeo, quell’area continentale che oggi è tornata a caratterizzarlo con gli aromi impareggiabili del bioma mediterraneo ma con fine strettamente edonistico. Nel rilevante lavoro “Jenever in de lage Landen” del 1996, il compianto professor Eric Van Schoonenberghe, già presidente dell’Hasselt Jenever Museum, citò per primo una ricetta del 1495 sorprendentemente ritrovata all’interno degli oltre 100.000 “Sloane manuscripts” tuttora conservati presso il British Museums. La preparazione, di autore ignoto e intitolata “Om gebrande wyn te maken” (come fare il vino bruciato), è considerata il caposaldo della storia del jenever, inteso come bevanda di piacere da distillare non solo con bacche di ginepro ma anche con erbe e spezie come noce moscata, cannella, galanga, chiodi di garofano, zenzero, salvia e cardamomo. Una serie di essenze anche di provenienza mediterranea e orientale che erano evidentemente in possesso degli alchimisti ben prima della nascita delle varie “compagnie” delle Indie. Da dove erano quindi arrivate le botanical? E perché “vino bruciato”? Sylvius o non Sylvius, il distillato da fermentato di malto diventato poi ufficialmente Genièvre (o Jenever o Genever) comparve nella società fiamminga soltanto a fine 1500 ispirato e preceduto proprio da quella bevanda aromatizzata a base vino che inizialmente servì a sanificare i dolori addominali per poi diventare un mero conforto dello spirito. Era quindi il distillato del vino, quell’aqua vitae terapeutica che, con le bacche di ginepro, erbe aromatiche e spezie, conservava il segreto della guari gione, quella di cui scrisse già nel 1266 Jacob van Maerlant nella sua enciclopedia “Van der Naturen Bloeme”, quella che si apprese dalla sapienza monastica cistercense nelle abbazie di Ter Duinen e Ter Doest, entrambe sorte nel XII secolo. Furono tempi che videro la Scuola Medica Salernitana agire da giunto culturale fra l’epoca classica e le pratiche del nuovo millennio, le filosofie pre-cristiane e quelle regole conventuali che si stavano diffondendo per l’Europa e che, verosimilmente, dalla nostra penisola raggiunsero anche le Fiandre con tanto di preziosi compendi scientifici e alchimistici. Il vino, la concentrazione del suo alcol con l’aggiunta delle bacche di ginepro, erbe e spezie esotiche, divennero strumento per la ricerca della quintessenza, gli elementi che univano la sapienza di Galeno con quella di Avicenna, Ippocrate, Costantino l’Africano e Isaac Ben Solomon. Ciò che è accaduto in questo terzo millennio al gin è così definibile come una sorta di ritorno alle proprie radici, l’arrivo di un lungo viaggio iniziato sempre dal Mediterraneo, originaria via di trasmissione culturale e oggi preziosa risorsa per la ricerca di botanical ed essenze tipiche e peculiari. Un rinnovamento che mette l’Italia in una posizione veramente esclusiva rispetto ad altri Paesi. Se è vero che Belgio, Paesi Bassi, piccola parte di Francia e Germania hanno disciplinato e tutelato la tradizione iscrivendo il Jenever (o Genever o Genièvre) nel registro degli spirits a marchio IG, la nostra produzione nazionale cavalca la modernità di un distillato di tendenza rispettando pienamente il disciplinare europeo e coinvolgendo dalle macro alle micro-distillerie nella ricerca dell’alta qualità spesso svelata in un London dry dagli aromi estremamente caratterizzanti di un luogo circoscritto. Questa sorta di “ritorno alle origini” vede oggi l’Italia come terra di assoluto riferimento qualitativo e creatività, vuoi per natura, vuoi per espressività geografiche estremamente circoscritte, vuoi per genio. Sono al momento soltanto due i gin continentali registrati a marchio IG: quello “de Mahón” proveniente dall’isola di Minorca e il “Vilnius” prodotto in tutta la Lituania. Questo è normale e non intacca quanto di buono si è imbottigliato nei nostri confini da nord a sud nell’ultimo decennio. Premettiamo che il gin, dopo aver superato o resistito al rilancio di competitors quali rum, vodka e mezcal, sta affrontando oggi una nuova sfida sul mercato della miscelazione e del trend con la nascita di eccellenti whisky tipici che riteniamo possano comunque difficilmente impensierirlo nelle varie drink challenges del futuro, almeno nei locali di “casa nostra”. Sono difatti inconfutabili il generosissimo patrimonio floristico offerto dalla nostra penisola e la conseguente opportunità concessa al genio e alla mano del distillatore per produrre una bevanda estremamente rappresentativa di un areale circoscritto. Un lavoro che diventa valore per un territorio, il suo habitat, la sua cultura e la sua gastronomia visto che il gin può abbinarsi, liscio o miscelato, volendo anche a tutto pasto. Un concetto che, fatti i doverosi distinguo, può ricordare quello del vino o, più similmente, quello della grappa: sviluppo ad alto grado concentrato dell’uva nostrana. L’Italia, Paese che già vanta un numero straordinario di vitigni autoctoni, caratterizzanti e identitari, offre con i suoi gin un’alternativa alcolica dalle composite sfumature botaniche che può altrettanto esprimere ed esaltare la singolarità dei suoi luoghi più periferici e delle loro ricchezze naturali, dal mare alla montagna. Proprio questa idea di espressività geografica limitata ha stimolato la passione e l’ingegno dei mastri distillatori. Realtà importanti o piccoli artigiani dell’alambicco stanno condividendo la strada che unisce l’antica ricerca della quintessenza con quella moderna dei mercati, un lavoro che interseca originalità e versatilità di una bevanda da consumare secondo i paradigmi dettati dalla qualità e dall’edonismo. Sono ben 26 i drink a base gin presenti negli attuali 89 della IBA cocktail list (16 nella sezione “Unforgettables”, 6 nella “Contemporary classics” e 4 nella “New era”). Se pensiamo che il rum compare in 14 ricette ufficiali mentre vodka e whisky entrambi in 13, comprendiamo l’attualità di questo distillato, che alle nostre latitudini trova una sua dinamica del tutto particolare e distintiva. La nostra selezione vuole semplicemente essere un riepilogo dei concetti esposti: una spassionata ed esplicativa appendice che preleva 5 referenze da differenti coordinate del nostro “stivale”. Distillati che mostrano un’innata attitudine alla miscelazione, ma che ci divertiamo a proporre lisci in stimolante abbinamento a pietanze variegate. Sono gin imbottigliati da aziende note o emergenti, con diverso stile produttivo e l’utilizzo di botanical peculiari sopra al fattor comune dell’eccellenza qualitativa e artigianale. Dry gin MAeCO’, Sibona – Piobesi d’Alba (CN) Le essenze del mare di Liguria e delle colline piemontesi: dalla pluripremiata distilleria cuneese una novità ben riuscita che arriva ai sensi come petali di rosa damascena, lavanda di Sale San Giovanni, nitido limone su ricordi di timo, basilico e camomilla. L’affabile delicatezza olfattiva invita al sorso dove mostra una buona incisività tattile. Un 42% che conduce aromi di scorza di arancia su un coerente bouquet floreale con finale di erbe e balsamico. La succulenza delle chicken nuggets con salsa mayo o l’aromaticità esclusiva di un porcino grigliato sono una intrigante e vincente proposta culinaria per l’abbinamento. London dry gin KIKU apple gin, Roner – Termeno (BZ) Dopo i numerosi riconoscimenti internazionali per le sue acquaviti, la casa altoatesina ha recentemente vinto la sfida a concentrare gli effluvi di una mela tipica con il metodo London dry. La KIKU® è una varietà a marchio registrato che cresce ai piedi delle Dolomiti e impreziosisce l’assaggio con un riconoscibile ricordo di miele d’acacia. Dal calice si diffonde prevalentemente ginepro, accompagnato con estrema eleganza anche da note balsamiche e di anice stellato. Bilanciamento tattile esemplare, 42% che al palato libera erbe alpine, maggiorana e cannella; la lunga scia finale riporta le peculiarità fruttate. Non cerca piatti di grande sapidità bensì con tendenza dolce che può incontrare in un carpaccio di gambero rosso di Mazara o in sottili crostini caldi con lardo. London dry gin Travertino, Ngricca - Spinetoli (AP) Giovane distilleria picena che raccoglie a mano le bacche di ginepro comune e di coccolone sui Monti della Laga e nel Parco del Gran Sasso, integrando la miscela da distillare con botanical coltivate nel proprio orto. Il profumo dei galbuli governa l’analisi olfattiva con vigore, lasciando spazi per quelli di bergamotto e coriandolo su sfondo floreale. In bocca è ricco, pulito e solido proprio come travertino; 43% deciso ma non irruente dalla lunghissima rincorsa balsamica con pizzichi speziati dopo l’avvio di scorza d’agrume. Sostanza che cerca sostanza: tipica, come quella di bruschette con ciauscolo, cavolo nero e pecorino grattugiato o quella più ricca del baccalà in umido alla napoletana. Gin Giniu 517, Silvio Carta - Zeddiani (OR) Il top di gamma a produzione limitata di un’azienda che offre fra la varietà più esaustive di gin in Italia per ogni palato. Silvio Carta non è solo espressione del Sinis e della Sardegna con la Vernaccia, da anni è considerata assoluto riferimento isolano e nazionale per gli spirits. Nel nome, l’essenza dell’esclusivo: 517 è il numero del mappale su cui cresce a 1500 metri questa singolare varietà di ginepro nano; un vero e proprio cru raccolto manualmente solo quando la neve inizia a ritirarsi. 51,7% è il rilevante titolo alcolometrico magistralmente tenuto fra i binari della fruibilità. Signorile e autorevole, dal primario già impattante a distanza, al naso aggiunge nitidi profumi di finocchietto selvatico, agrumi e salmastro. In bocca è una sapida e infinita rincorsa di aromi fra ricordi di ginepro, mirto, scorza di mandarino ed erbe officinali. Una persistenza da provare su salumi artigianali e non piccanti come salsiccia di cinghiale o Jamón Ibérico o ancora sui sapori più forti di un brasato alla birra. London Dry Gin Archimede 287, Akrai Spirits - Palazzolo Acreide (SR) Fra i Monti Iblei lavora questa emergente realtà artigianale dai risultati già sorprendenti. Distillare la carruba con metodo London dry è opera ardua che richiede estrema scrupolosità e genio, il nome del gin non è quindi casuale. Bevanda tendenzialmente morbida che apre subito il suo ventaglio di essenze verso i tratti maggiormente caratterizzanti accompagnandoli da quelli del coriandolo, erbe aromatiche e anice stellato. Ben bilanciato sulle papille, 40% corroborante e misurato che eleva sapientemente la sinergia fra ginepro e carruba prolungandola con ricordi di agrumi, alloro e liquirizia di piacevole persistenza. Sorprendente la sua versatilità sulla tavola, estasiante su cous cous di verdure e riso basmati bianco al pollo ed erbe.