Il test del DNA per ricostruire le proprie origini è molto meno costoso di una volta, quindi, qualche mese fa mi sono fatto mandare un kit apposito comprato online. Oltre a indicare antenati scozzesi, nordafricani e bretoni, l’esame ha rivelato la presenza di numerosi marcatori molecolari del sangiovese.
È dovuto probabilmente al fatto che mia madre era romagnola, di Bertinoro. Ciò spiega anche a livello genetico perché i vini da uve sangiovese mi siano sempre piaciuti, in tutte le loro declinazioni territoriali e stilistiche (quali più, quali meno).
Certo, non sono un amatore isolato della nobile varietà. Il sangiovese fa nascere alcuni dei più compiuti rossi italiani, e conta, com’è giusto, schiere di appassionati.
Non ci sono dubbi sul fatto che alcuni distretti produttivi siano molto più ricercati di altri dagli enofili: Montalcino e Chianti Classico su tutti, ovviamente. Mentre il Sangiovese della Romagna, che pure nell’ultimo quindicennio ha dato ottime prove in termini di qualità, originalità, longevità, rimane ancora confinato in un limbo dove la stima dei bevitori – soprattutto stranieri – è ancora tiepida.
Una parte di responsabilità ce l’ha la strategia perseguita da molte aziende romagnole nei decenni Novanta e Duemila, che nel tentativo di inseguire il successo di mercato dei poderosi Brunello ha caricato i propri Sangiovese con dosi cavalline di rovere nuovo, tannini, alcol. Tentativo del tutto comprensibile, certo. Ma il risultato era non di rado una soluzione idroalcolica semisolida, facile da mandare giù come un bicchiere di cemento armato.