È nato in Messico e parla bene l’antico azteco e lo spagnolo. Ma il ficodìndia è poliglotta e conversa fluentemente anche nella lingua e nei dialetti di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Il siciliano in primis. Il Treccani insegna che pianta e frutto si possono scrivere in due modi: tutto attaccato, ficodìndia (come abbiamo scelto di fare) o staccato: fico d’India. Trapiantato in Sicilia cinque secoli fa il ficodìndia ci si è trovato talmente bene che dopo avere conquistato l’isola con la bontà dei frutti, l’estrosa bellezza dei fiori e un esercito di cladodi spinosi – il linguaggio popolare li definisce “pale” che somigliano a foglie grasse, ma non lo sono –, ha espugnato le terre vicine, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, continuando su-su-su per il litorale tirrenico fino alla Liguria e giù-giù-giù per il Mare Nostrum: Grecia, Turchia, Palestina, Libia, Tunisia fino al Marocco.
Il ficodìndia parla azteco in quanto è originario dell’altopiano centrale messicano su cui sorgeva l’antica capitale azteca Tenochtitlan, l’odierna Città del Messico. Lassù la pianta era presente, stando ai ritrovamenti di semi fossili, qualche migliaio d’anni prima di Cristo. Una leggenda azteca lega la fondazione di Tenochtitlan che, tradotto alla lettera, significa “luogo del ficodìndia sulla roccia”, a una popolazione nomade amerinda che, incitata da una profezia, si era spostata in massa verso sud per stabilirsi nel luogo, così recitava la predizione, dove stava un’aquila con un serpente tra gli artigli appollaiata su un ficodìndia radicato su una roccia. Così avvenne. Il Messico ancora oggi celebra questo mito nella bandiera che presenta nello stemma centrale un’aquila su un ficodìndia con un crotalo tra gli artigli e il becco.
Ma il ficodìndia, una volta scoperto dagli spagnoli e attraversato l’Atlantico sulla caravella di Colombo di ritorno al Vecchio Continente, ha trovato un’altra patria, un’altra Tenochtitlan: la Sicilia.