Natura affine di confine.

Fabio Rizzari

Per il dizionario Treccani il confine in senso geografico è “la zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti”. E questa è l’accezione in cui tutti, più o meno consapevolmente, pensiamo il confine. Un luogo fisico separato da altro luogo fisico: una linea tracciata da un burocrate. Però il tema del confine, ovvero dei fenomeni cosiddetti liminali, è infinitamente più ampio. Anzi, nei fatti siamo letteralmente circondati da fenomeni o oggetti liminali. Per fare solo qualche esempio: il vetro, che è una sostanza al confine tra lo stato solido e quello liquido; o la schiuma del sapone, che è tra il solido e il gassoso, o la rugiada, fenomeno di confine tra il liquido e il vapore. Ma il confine tocca temi anche astratti, filosofici, quali i dilemmi morali, dove ogni decisione finale ha implicazioni positive e negative. Il confine insomma è un concetto di carattere pervasivo, è intorno a noi e dentro di noi.

Sul piano universitario esiste un particolare settore interdisciplinare, riunito sotto la definizione – inevitabilmente inglese – di Border studies. Viceversa, sul piano più comune, manca una retorica popolare ampiamente condivisa del confine. Il confine rimane un termine convenzionale, ingabbiato nella sua definizione letterale, e non lascia sospettare la sua sorprendente complessità semantica. Anche nel mondo del vino è possibile intravvedere un reticolo di eventi di confine. All’estremo limite settentrionale delle sue possibilità di crescita, un’uva dà di solito i risultati migliori: lo chardonnay a Chablis e nella Champagne, il nebbiolo nelle Langhe e nel Nord Piemonte, il pinot nero a Gevrey-Chambertin. Arrivati al termine ultimo della loro parabola vitale, un bianco e un rosso confluiscono in un’area liminale – una gamma di gialli aranciati e marroni ambrati – dove i loro colori si confondono. E si potrebbero citare non pochi altri casi curiosi sullo stesso tema.

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