Giuseppe Maga, il figlio di Lino, si racconta nel ricordo del papà e degli anni di difesa e successo del loro Barbacarlo. Traguardi non facili ma raggiunti con orgoglio, forza e grande dignità
SARA MISSAGLIA
SARA MISSAGLIA
«Mi manca, il problema è che manca». Incontrare Giuseppe che parla, nella sala degustazione della cantina mentre fuma esattamente come il papà, porta inevitabilmente il pensiero a lui, Lino Maga. La notte di Capodanno si è portata via il piccolo grande uomo dell’Oltrepò Pavese e il vuoto che ha lasciato nel cuore del figlio, ma non solo, è difficile da colmare.
Il posacenere è un tralcio di vite, e il fumo annebbia l’aria ma mai i ricordi. Le tante bottiglie sul tavolo, insieme ai calici, alle fotografie, ai
riconoscimenti sembrano prendere la forma delle reliquie e tracciano distintamente il percorso di novant’anni di vita. Giuseppe cerca: sposta carte,
bottiglie, libri, e trova appunti, disseminati ovunque. Una caccia al tesoro, ogni giorno ne trova di nuovi: brevissimi scritti del papà, pensieri sulla
carta da toccare, sfiorando l’anima di chi non c’è più e che vive anche in queste parole. E Giuseppe li legge ad alta voce, quasi fosse un’invocazione.
«Il tempo è breve, conservo la dignità d’attesa. Tutti mi invitano a resistere, la volontà non manca, ma le forze cedono». La grafia è tremolante, sono
pensieri degli ultimi giorni, ma ciò che colpisce è la straordinaria lucidità e il senso di realtà, mantenute sino alla fine. Per tutta la durata del
nostro incontro Giuseppe ha sempre gli occhi lucidi: sembra tornare ragazzino nonostante i suoi 56 anni vissuti al fianco del papà: nessuno più di lui
ha conosciuto le soddisfazioni, le vittorie, le battaglie, i tanti “mal di panciaˮ di Lino. Padre e figlio insieme, con Giuseppe che ha sempre fatto un
passo indietro per lasciare che fosse il padre ad apparire in prima linea: «ho preferito rimanere nell’ombra, ma mio padre meritava tutto lo spazio che
si era guadagnato nel tempo. Cercavano sempre di lui, a volte riservandomi un trattamento poco gentile. Eppure a me questo non è mai pesato, il nostro
era un rapporto profondo e vero, anche se a volte fatto di scintille. Papà le cose non le mandava a dire, lui stesso si definiva un personaggio scomodo
perché amava la verità: e se non ci fossero stati amici del calibro di Veronelli o di Brera non ce l’avrebbe fatta».