Achi scrive di birra, incluso il sottoscritto, piace sempre molto parlare delle produzioni più creative e originali messe in campo soprattutto dai
birrai artigiani italiani di prima e seconda generazione. Le birre a fermentazione spontanea, le Italian Grape Ale con mosto d’uva, quelle con cereali
diversi dall’orzo e quelle che prevedono l’impiego di ingredienti capaci probabilmente di far rivoltare nella tomba un certo Josef Groll il quale a
Pilsen, in Boemia, nel lontano 1842 creò una birra il cui successo mondiale dura tutt’ora. Già perché le pils o le pilsner che dir si voglia sono
probabilmente quanto di più si avvicina allo stereotipo della definizione di birra che potrebbe avere in mente la famosa casalinga di Voghera. Un bel
cappello di schiuma candida e fine, un profumo che ricorda l’erba appena tagliata, la crosta di pane, un cenno di miele e un corpo bilanciato con un
finale corto e asciutto, leggermente amaro. Si tratta con tutta probabilità del tipo di birra più consumato nel mondo che tuttavia, proprio in virtù del
suo successo, ha avuto interpretazioni differenti nel corso dei secoli. Oggi infatti si tende a distinguere almeno quelle che sono le pils tradizionali,
non a caso dette Bohemian Pilsner, dalle pils ancora più “secche” prodotte nel Nord della Germania e da quelle, più rotonde e maltate, della Baviera.