Vita da winemaker - Fabio Mecca

Fabio Mecca: l’enologo al centro della cantina

«L’autoctono? È un viaggio più intenso nel territorio. Il biologico deve essere un'impostazione di vita e non una strategia per attivare un mercato»

di PAOLO VALENTE

Fabio, raccontaci un po’ di te.
Ho quarant’anni e, nonostante gli studi classici, ho saputo da sempre che avrei fatto l’enologo. La scuola elementare era vicino alla cantina Paternoster, la cantina di famiglia, e in classe stavo con la testa girata verso la finestra per vedere se arrivava l’uva; appena terminate le lezioni scappavo in cantina per attendere i camion o lavorare per l’imbottigliamento. Per me è stata una scelta naturale. Ho fatto la maturità classica perché me lo ha chiesto mio padre che ringrazio per avermi consigliato questo indirizzo. Poi sono andato a Polignano Veneto dove mi sono laureato. Ho avuto la fortuna di fare il tirocinio da Isole e Olena, da Paolo De Marchi, e questo è stato molto importante dal punto di vista formativo.
Ritornato in Basilicata, nella mia terra, ho deciso di intraprendere altri percorsi per accrescere la mia capacità di lavorare e ho avuto la fortuna di collaborare con Roberto Cipresso diventando il responsabile di tutte le aziende che lui seguiva nel Centro Sud Italia. La nostra collaborazione è durata quattro anni poi, di comune accordo, abbiamo ritenuto che fossi in grado di camminare da solo. Da aprile 2010 ho dunque iniziato la mia attività di consulente che mi porta oggi a seguire una ventina di cantine in tutta Italia, dalla Toscana alla Sicilia.
Qual è il territorio che preferisci tra quelli in cui lavori?
Ho la fortuna di lavorare in tante microzone dalle caratteristiche uniche: la zona del nero di Troia, oppure quella del Vesuvio o quella della DOC Melissa in Calabria, solo per fare alcuni nomi. Sono piccoli territori che hanno le loro peculiarità e in ogni territorio c’è una caratteristica unica che a me piace andare a scoprire e che venga tracciata all’interno del vino.
Preferisci il territorio o il vitigno?
Io prediligo molto di più il territorio. Ritengo che il vitigno sia comunque molto importante ma il territorio ha la capacità di dare una marcia in più al vitigno perché viene sempre a marcare quelle che sono le caratteristiche di un vitigno. Al contempo però mette anche in evidenza i limiti di alcuni vitigni piantati in territori non vocati.
Prendiamo ad esempio il Primitivo: sicuramente è un grande vino, un vino potente con una grande struttura e alcolicità, ma il risultato che abbiamo quando è piantato a 50 metri sul livello del mare, in un territorio prettamente sabbioso, è totalmente diverso da quello che si ottiene da un primitivo piantato a 450/500 metri all’interno del Parco del Pollino in un territorio di origine quasi vulcanica con calanchi e con una struttura di terreno unico.
Preferisci i vitigni autoctoni o quelli internazionali?
Vitigni autoctoni tutta la vita!
Perché?
Secondo me è molto più divertente lavorare con gli autoctoni. Sicuramente la storia enologica italiana ci insegna che noi dobbiamo tanto ai cabernet e merlot che ci hanno permesso di comprendere la reale potenzialità e qualità della nostra enologia in tanti territori, però l’autoctono è un viaggio più intenso nel territorio. Confrontandoti con un vitigno autoctono hai la capacità di comprendere ancora di più quello che il territorio ti vuole dire, ti vuole raccontare e anche l’interpretazione del produttore riesce a esprimersi al meglio rispetto al vitigno.