Oltre che aver mosso la penna dei viaggiatori e il pennello dei pittori lungo oltre cinquecento anni per la sua straordinaria bellezza paesaggistica, il
rilievo a sud-est di Roma appare ideale per una viticoltura di elevata qualità, impostata per produrre con costanza vini di personalità e valore. Si
percorrono le strade di Frascati, Grottaferrata, Marino, Monte Compatri, Monteporzio, Genzano o Lanuvio, e le si trova quasi tutte in pendenza: rampe
bordate da pini, ville, terrazze, uliveti e vigne, che ogni tanto lasciano filtrare panorami da togliere il fiato. Da un lato, giù in basso, si stende
la città di Roma, che da certi vigneti si abbraccia quasi nella sua interezza, sovente coronata dal nuvolone piatto dello smog; dall’altra, un fresco
susseguirsi di aree rurali, boschi, laghi e borghi medievali, i quattordici “Castelli”. Tra essi, per via della sua lunghissima storia come paese del
vino, ecco Frascati, centro principale della zona e sorta di balcone sulla Capitale, ai cui abitanti, tradizionalmente, ha offerto accoglienza all’ombra
delle pergole.
«Qui è il campo del dio coronato di pampini» ne scrisse Hans Barth, scrittore e giornalista tedesco venuto da Stoccarda e mai più tornato in patria, in
un memorabile libretto-compendio per gourmet del 1909 dal titolo “Osteria”. «I pali delle viti, come piramidi di fucili di un esercito, o come una
apocalittica fortezza, circondano e difendono i luoghi della grazia, e l’odore di vino, e il sole, si spandono su questa terra. Poeticamente». La storia
e la tradizione del vino dei Castelli Romani Ai tempi di questo scritto, il luogo era, se non proprio una capitale, quantomeno un luogo celebre e a suo
modo emblematico del vino italiano di qualità: al civico 26 di Oxford Street, nel cuore di Londra, faceva all’epoca numeri da capogiro il “Restaurant
Frascati” di Frederick Gordon, inaugurato nel 1873.
La tradizione agricola dei Castelli Romani, che ha sempre avuto il vino come elemento centrale e qualificante, era peraltro meno aneddotica e
avventurosa di quanto si possa pensare ai giorni nostri, quando magari tendiamo in buona fede ad andare con la mente a feste di piazza in costume
folcloristico con le fontane che danno vino, e in generale all’ebbrezza come esito tangibile del consumo locale dei tempi andati. Certo, c’erano anche
le feste e le fontane; ma i dati della viticoltura castellana, i documenti che ne attestano la febbrile attività di ricerca scientifica su più fronti, e
la qualità dei vini migliori per come la ricorda chi li ha a lungo conservati, mostrano del vino storico locale un volto diverso. L’esplosione delle
Cantine Sociali, la redazione di disciplinari a dir poco permissivi, l’urbanizzazione di molte aree di arcaica vocazione (esempio: il Frascati ha perso
in un colpo solo 120 ettari di vigneto per la costruzione dell’Autostrada del Sole nel 1961), l’abnorme e disordinato sviluppo della città di Roma che
si estende ai suoi piedi, e la mancanza di una “locomotiva” trainante – sotto forma di un’azienda capace sia di produrre sia di comunicare ad alti
livelli: in genere o si sa fare una cosa, o l’altra – hanno determinato a partire dalla fine degli anni Sessanta una serie di conseguenze, alcune delle
quali negative. Certo, le Cantine Sociali hanno consentito di salvaguardare i vigneti più “fragili”, per essere molto vecchi, o molto piccoli, o le due
cose assieme. Tuttavia, oltre al sacrificio del poco richiesto rosso locale, che aveva tanta tradizione quanta il bianco, il vino del luogo, prodotto in
quantità e con mentalità industriale e con un aumento improvviso della tecnologia utilizzata, è uscito dalla transizione depotenziato, trasfigurato
nella direzione di una neutralità frustrante, di una pallida, anaffettiva correttezza.
Va aggiunta alla colonna delle perdite l’inevitabile estinzione di un patrimonio di varietà che era una banca botanica: sono scomparse uve di antica
consuetudine, molte delle quali buone anche “da mensa”, leggere i cui nomi oggi lascia un’espressione interrogativa: avete mai sentito nominare la
garbagorba, il merichino, la marzacca, l’albarosa, la garofolella, il gennariello, il panzaprecoce e il chiapparone? No? Tranquilli: siete in buona e
numerosa compagnia, anche ai Castelli.
Lo scadimento qualitativo del materiale vegetale nel vigneto castellano è stato a sua volta conseguenza di piani assistenziali di reimpianto e progetti
vivaistici che col senno di poi vengono oggi considerati privi di criterio e del minimo sindacale di lungimiranza. Allo spaesamento stilistico del vino
della zona è andata di pari passo l’amnesia collettiva sulla modalità espressiva dei bianchi castellani di un tempo, magari più approssimativi nella
fattura, ma dieci volte più intensi. Quanto alla superficie vitata effettiva del Frascati, abbiamo raccolto dati sconcertanti: l’urbanizzazione delle
estreme periferie del comune di Roma, e soprattutto l’apparentemente inarginabile fenomeno di abbandono dei vigneti hanno fatto sì che i 1.700 ettari
del 2001 si siano contratti a circa 900 nel 2022: il 52,9% in meno in un arco temporale di vent’anni.