Cristiano Garella: la leggerezza è la chiave di tutto Enfant prodige dell’enologia piemontese, Cristiano Garella oggi collabora con diverse aziende seguendo una sola filosofia: minimo intervento, in vigna e in cantina
di PAOLO VALENTE
di PAOLO VALENTE
Nato in Piemonte nel 1984, Cristiano Garella si avvicina fin da piccolo al mondo del vino diventandone appassionato interprete. Una impegnativa e gratificante esperienza lavorativa lo forma e gli consente di intraprendere la professione di enologo consulente quando è solamente trentenne. I suoi vini hanno ricevuto numerosi riconoscimenti sia a livello nazionale che internazionale.
Raccontaci un po’ di te.
Mi sono avvicinato al mondo del vino intorno ai dodici, tredici anni: la prima vendemmia nel 1998 con Giuan, un anziano vignaiolo che ho seguito fino al
2003. Ho iniziato il corso di Enologia all’Università di Torino e Alba e nel 2006, quasi al termine, sono stato chiamato da Tenute Sella; mi mancavano 3
esami, gli stessi che mi mancano ancora oggi. Ho lavorato per loro fino al 2013 come direttore, agronomo ed enologo; è stato un capitolo importante per
la mia vita professionale.
Nel 2003, alla morte di Giuan, era iniziata, con mio fratello Daniele, l’avventura dell’Azienda Agricola Garella; nel 2009 iniziai la collaborazione con
una piccola realtà dell’Etna viste le analogie con l’Alto Piemonte in termini di finezza, acidità, estrazioni e, purtroppo, problemi di peronospora.
L’anno dopo, il 2010, con la famiglia Colombera, abbiamo creato Colombera & Garella e poi, con una compagine variegata di soci, ho costituito
l’azienda Le Pianelle; entrambe le realtà sono diventate, per me oggi, progetti chiave.
Quando poi ho lasciato Tenute Sella, ho iniziato a collaborare con tante persone di varie aziende, alcune minuscole da solo 500 bottiglie altre più
strutturate: Boniperti a Barengo, Crotin a Maretto d’Asti, Ioppa a Ghemme, Frecciarossa in Oltrepò Pavese, solo per citarne alcune.
Si sente tanto parlare di agricoltura di precisione, è possibile applicare lo stesso concetto anche all’enologia?
Il punto chiave di tutto è come si interpreta un terroir e come lo si gestisce, nella sua accezione più classica. L’agricoltura e l’enologia di
precisione devono andare di conseguenza con la consapevolezza del terroir. Occorre ragionare su cosa si può fare senza stravolgere le carte in tavola
rispetto a quello che il territorio offre. Il nostro intervento, come enologi, deve avere un peso inferiore a quello del luogo dove produciamo e delle
persone con cui lavoriamo. La chiave di tutto è la leggerezza.
Minimo intervento in vigna per quanto riguarda i trattamenti e minimo intervento in cantina. Sopperire agli errori è sempre una mancanza. Il lavoro di
qualità in vigna deve essere per forza seguito da un lavoro di consapevolezza, precisione e leggerezza in cantina. Spesso sono solo parole ma questo è
veramente quello che fa la differenza: esprimere il luogo in cui produciamo è l’unica arma che abbiamo per diventare insostituibili. Tutti sono in grado
di fare un vino buono in qualsiasi parte del mondo, l’importante è saper trasmettere il luogo, altrimenti qualcun altro potrà fare la stessa cosa.
Tutto questo come si concilia con il cambiamento climatico?
Il global warming è un problema importante e impattante se si opera in zone vitivinicole calde come, per esempio, l’Oltrepò Pavese; lo è molto di meno,
anche se permane, in zone più fresche come l’Alto Piemonte.
Non si può più far riferimento a quanto fatto negli anni precedenti; stiamo vivendo annate molto diverse l’una dall’altra e dobbiamo essere elastici sia
dal punto di vista viticolo che enologico. Lo scorso anno è stata un’annata siccitosa mentre quest’anno, in Alto Piemonte, da aprile a giugno sono
caduti 600 mm di acqua. Se avessimo agito nello stesso modo avremmo fatto dei danni. Serve ragionale puntualmente su quello che sta accadendo rimanendo
flessibili anche in termini di data della vendemmia.
Quali possono essere le azioni di contrasto da mettere in atto?
Occorre salire di altitudine dove si può, piantare in versanti che in passato erano considerati non vocati, mantenere i grappoli più coperti, utilizzare
reti antigrandine anche per gestire l’ombreggiamento e per avere una chioma più compatta. La grandine, purtroppo, è diventata una costante; può
danneggiare al 30% o al 90% ma quasi sicuramente colpirà e proteggersi è diventato un obbligo. Le reti non azzerano i danni ma li riducono; ti faccio un
esempio: la scorsa stagione una vigna non protetta ha perso dal 90 al 95% della produzione mentre quella confinante, protetta, ha avuto danni tra il 50
e il 55%.
Cosa significa essere enologi oggi?
Veramente non l’ho ancora capito! Credo voglia dire essere in grado di mettersi in secondo piano; il nostro peso, la nostra influenza, deve essere
fortemente inferiore a tutto quello che ci sta attorno, dal territorio alle persone. Quindi vuol dire anche accettare il fatto di non poter lavorare con
tutte le aziende magari anche solo perché non si condividono gli obiettivi o i mezzi per raggiungerli. Occorre maggiore consapevolezza e rispetto dei
ruoli reciproci. Oltre a questo, credo che per essere un bravo enologo si debbano assaggiare tanti vini buoni, vini in grado di trasmettere delle
emozioni in modo da migliorare il palato e cercare di portare nel bicchiere analoghe sensazioni.
Qual è la tua filosofia produttiva?
In sintesi, è quella di far esprimere il territorio. Se sono in un luogo benedetto
dove c’è un vigneto di qualità, io devo esaltare quel vigneto. Può essere che all’inizio del percorso non sia in grado di farlo perché occorre ancora
capirne le peculiarità ma pian piano devo essere in grado di lavorare con quello che ci dà la vigna, lieviti compresi, l’uso degli indigeni rappresenta
un salto di qualità. Poi fermentazioni a grappolo intero per avere maggiori tannini e maggiori sensazioni fruttate, gestione delle fecce per controllare
le riduzioni e avere più frutto, miglioramento nell’uso della solforosa per il contenimento delle ossidazioni. Nel nebbiolo, ad esempio, siamo in grado
di andare in bottiglia con solo due travasi e dosi minime di solfiti. Dunque, non sei un nemico della solforosa? Non sono in grado di essere contro la
solforosa, almeno per adesso. È ancora un’alleata quasi indispensabile; ad oggi, per me, fare vini senza solforosa significherebbe dare alla scelta
tecnica un peso superiore a quello del territorio di provenienza.