Il nome Hispaniola forse oggi non dice molto, tranne forse costringendoci ad attingere a qualche reminiscenza storica studentesca. È quello dell’isola
dove sbarcò Cristoforo Colombo il 4 dicembre 1492 e dove fu fondata la prima colonia europea del Nuovo Mondo.
Oggi quasi nessuno la chiama con il nome che lo stesso Colombo le diede rivendicandone il possesso alla corona spagnola, ma si parla di lei come di due
entità separate, quali in realtà sono: Repubblica Dominicana o Santo Domingo e Haiti. Due facce, diversissime, della stessa medaglia. Se infatti Santo
Domingo è presente in tutti i cataloghi dei tour operator che lavorano nei Caraibi, negli stessi è impossibile trovarvi Haiti. La metà occidentale di
quest’isola delle Antille seconda solo a Cuba per dimensioni ha una storia piuttosto travagliata: colonia francese tra le più preziose per la produzione
di cacao, caffè, canna da zucchero ma anche cotone e indaco fondò a lungo la sua economia sugli schiavi africani portati a lavorare, e molto spesso a
morire, nelle piantagioni governate dai bianchi. Nel 1790 Haiti poteva contare su una popolazione di poco superiore al mezzo milione di abitanti, appena
trentamila dei quali erano bianchi europei. Una situazione in effetti del tutto simile a quella di altri territori conquistati dopo la “scoperta” di
Colombo ma che in Haiti prese una piega imprevista e, soprattutto, mai più replicata nel corso della storia mondiale. Nel 1791 infatti scoppiarono le
prime rivolte, appena due anni dopo i ribelli applicarono la dichiarazione francese sui diritti dell’uomo, che sostanzialmente affrancava tutti gli
schiavi, e nel 1805 veniva approvata la Costituzione all’interno della quale si dichiarava che “la schiavitù è abolita per sempre”. Esattamente
sessant’anni prima degli Stati Uniti. La vittoria degli schiavi haitiani ebbe tuttavia un prezzo: preoccupati che il fuoco della ribellione potesse
espandersi ad altre colonie, Haiti fu tagliata fuori dalle rotte commerciali e da qualsiasi influenza europea. La sua storia politica e la sua
evoluzione economica fu di conseguenza lenta e travagliata, attraversata da un lungo periodo di dittatura, François Duvalier meglio noto con il
nomignolo di Papa Doc la governò con pugno di ferro dal 1957 al 1971 e a seguire fu il figlio Jean-Claude a raccoglierne il testimone fino alla rivolta
popolare del 1986, e afflitta da calamità naturali come lo spaventoso terremoto del 2010, che fece più di duecentomila morti, e quello recente del 2021.
Ancora oggi, avendola visitata su invito e in compagnia di Luca Gargano, patron di Velier, la genovese azienda leader nell’importazione di distillati da
tutto il mondo, le difficoltà per gran parte del popolo haitiano non mancano. Ma non mancano nemmeno le ricchezze che, in parte anche in virtù del lungo
periodo di isolamento, fanno di questo paese un gioiello prezioso. Una specie di ultima frontiera dove il tempo sembra essersi fermato alla rivoluzione.
Per rendersene conto basta avere il coraggio e la tempra fisica per mettersi in viaggio da Port-au-Prince, la capitale, verso l’entroterra, percorrendo
strade sterrate e, con la pioggia, fangose, attraversando piccoli villaggi nei quali manca tutto, l’elettricità, le fognature, l’acqua corrente, tranne
il sorriso della gente e la loro incredibile voglia di vivere. Seminascoste tra la vegetazione, all’ombra di enormi alberi di mango, si possono scoprire
le guildive, le piccole distillerie a conduzione familiare che distillano il succo della canna da zucchero in alambicchi che un tempo appartenevano ai
coloni francesi. È una tradizione che si trasmette di generazione in generazione e praticamente ogni villaggio ha la sua guildive. Per capire la
differenza che passa tra Haiti e il resto dei Caraibi produttori di rum, basta sottolineare il fatto che qui sono in attività più di cinquecento
alambicchi mentre in tutto il resto dei Caraibi le distillerie sono circa una quarantina. E qui il distillato non è chiamato rum ma clairin, termine che
significa “chiaretto” e indica il colore cristallino del distillato.