Andiamo sul concreto. Ragioniamo intorno ai prezzi degli oli extra vergini di oliva in commercio. È necessario farlo, perché le indicazioni poste sui
frontalini porta prezzo degli scaffali danno luogo a dubbi e a tanta confusione. Il 2023 sarà ricordato come l’anno nero dell’olivicoltura, ma pure il
2024 non si prospetta migliore. Le quotazioni all’ingrosso segnano livelli mai battuti. Non è speculazione: manca proprio l’olio. Il colosso spagnolo
che in certe annate produce fino a un milione e 800 mila tonnellate di oli da olive ha subito una drastica riduzione nel 2022-2023, scendendo a quota
664 mila. Considerando che l’Italia ha un fabbisogno di un milione di tonnellate e ne ha prodotte molto meno di 200 mila, si comprende la drammaticità
del momento. Il consumatore se ne è reso conto in parte, perché le scorte di olio hanno garantito un minimo contenimento dei prezzi. Tuttavia, i prezzi
a scaffale sono davvero alti, anche per gli oli comunitari da “primo prezzo”. Un paragone? Al 15 settembre gli oli spagnoli erano quotati a 8,60 euro al
kg. Negli anni passati si aggiravano poco sopra i 2 euro, raggiungendo in casi eccezionali i 3 o i 4 euro. Le quotazioni record del 2023 fanno
riflettere. È un evento epocale. Il cambiamento climatico ha creato una inedita situazione di emergenza. Perfino l’olio non commestibile, il cosiddetto
“vergine lampante”, quota 7,50 euro in Spagna. Si tratta del lampante, l’olio destinato alla raffinazione, quello da cui si ottiene l’olio di oliva (non
extra vergine). Il consumatore non comprende tali aumenti e calano così i consumi. Non tutto viene però per nuocere. L’inaspettato crollo produttivo è
utile per interrogarci sugli effetti del cambiamento climatico e sul fatto che si debba riconsiderare il modo di fare agricoltura. Occorre una concreta
e urgente presa di coscienza. Ci vorrebbe una task force di esperti per affrontare le nuove problematiche e individuare le più efficaci soluzioni
agronomiche. Nel contempo, si deve anche ragionare sul delicato fronte dei prezzi, attraverso un’analisi storica retrospettiva e una, invece, in
prospettiva futura. I prezzi al dettaglio precedenti lo stato di crisi del 2023 hanno compromesso la tenuta del settore produttivo, negando di fatto,
alle imprese olivicole e olearie, la possibilità di investire in innovazione di prodotto e in comunicazione. La grave perdita di valore degli ultimi tre
decenni ha indebolito le strutture produttive e fatto credere al consumatore che l’olio extra vergine di oliva si possa acquistare a poco, quasi fosse
un generico olio tra i tanti ‒ buono sì, ma di scarso valore. La scienza medica sostiene da sempre che si tratti di un prodotto “nutraceutico”, un
“functional food”, e per questo non si comprendono i prezzi stracciati delle continue offerte frutto di politiche commerciali deprecabili fondate sul
sottocosto. Non ha alcun senso che un prodotto di grande valore nutrizionale e sensoriale qual è l’olio extra vergine di oliva - ottenuto peraltro in un
periodo storico che per varie ragioni ce lo fornisce di una qualità di gran lunga superiore rispetto ad altre epoche – possa essere immesso sul mercato
a prezzi che ne sviliscono di fatto il valore. Le perenni offerte a prezzi sottocosto hanno creato danni irreversibili, demotivando il lavoro di milioni
di operatori. Così, nonostante la Gdo parli tanto di sostenibilità e di valori etici, le ininterrotte campagne di promozione, dodici mesi su dodici,
hanno dato luogo a un danno economico e morale incalcolabile per il settore oleario. Un danno sia in termini di immagine e reputazione del prodotto,
svilito e banalizzato nel suo valore intrinseco, sia in termini commerciali, con la conseguenza che si sottrae futuro e ogni briciola di speranza al
comparto produttivo. Per gli atteggiamenti assunti, sembra che alla Gdo non importi nulla del futuro. I buyer si concentrano solo sull’oggi, sui volumi
di vendita e sul fatturato, generando rovinosi squilibri strutturali alle imprese olearie. Di conseguenza, nonostante la Gdo abbia avuto il merito, in
passato, di rendere democratico e accessibile a tutti un prodotto come l’extra vergine ‒ un tempo confinato solo nei luoghi di maggior produzione, in un
ambito strettamente regionalistico ‒ tale merito nel tempo è venuto purtroppo meno, proprio per via di politiche commerciali ingiustificatamente estreme
e poco lungimiranti, mettendo in ginocchio l’intero settore oleario e compromettendo la reputazione stessa del prodotto. I prezzi selvaggi che per
decenni si sono rgistrati sugli scaffali hanno reso l’olio extra vergine un prodotto commodity e come tale viene ancora avvertito dal consumatore. Così,
dinanzi a una emergenza climatica evidente a tutti, le aziende olearie non sono pronte per fronteggiare le conseguenze del mancato raccolto. I loro
deboli bilanci, depauperati da logiche commerciali aggressive, non hanno permesso di investire in ricerca e innovazione, per stare al passo con i tempi.
Nello stesso tempo, il consumatore, posto di fronte alle lusinghe del sottocosto continuo, con l’illusione del risparmio ha di fatto perso di vista il
reale valore degli extra vergini. Pertanto, in ragione di un 2023 disastroso per la produzione olearia, e anche in vista di un 2024 altrettanto poco
rassicurante, sarebbe il caso di ripensare il presente e il futuro, permettendo di recuperare, una buona volta per tutte, il valore perduto, abituando
nel contempo il consumatore ad accettare e accogliere ‒ senza che vi sia una riduzione dei consumi ‒ i prezzi di costo reali di un extra vergine, non
quelli pretesi dalla Gdo, con atteggiamenti di ricatto verso le imprese produttrici e confezionatrici. Ora, non me ne vogliano gli operatori della
distribuzione organizzata, ma il disastro, sia ben chiaro, è stato generato da loro.