Il manzo all’olio Un grande classico che, in una manciata di ingredienti, dà voce alla cultura e alle più ancestrali tradizioni di una piccola città e del suo territorio
di ANDREA GRIGNAFFINI
di ANDREA GRIGNAFFINI
La pietanza in questione, antica e goduriosa, è il manzo all’olio e il paese, ça va sans dire, è Rovato.
Il legame tra i due, tanto indissolubile quanto naturale. Perché dove, se non in questo gioiellino della Franciacorta vegliato dal Monte Orfano, la cui
storia s’intreccia sin da tempi immemori al commercio del bestiame, poteva eleggere i suoi natali tale carnea, prelibatissima preparazione? A Rovato, le
prime tracce di un’esposizione periodica di animali risalgono al Regno Longobardo (V-IX secolo d.C.) e la prassi s’intensifica nel Medioevo, quando i
mandriani e i pastori della Val Camonica e della Valtellina conducevano i loro capi migliori nella piazza della città, gettando le basi di un mercato
stabile di bestiame che nel tempo si sviluppò radicandosi tra le consuetudini cittadine, una tradizione testimoniata, oggi, dalla rassegna annuale
Lombardia Carne, il più rilevante evento zootecnico del Nord Italia, giunto lo scorso marzo alla sua 132esima edizione.
Dunque, secoli orsono, la carne rovatese di primissima scelta si sublimò in una pietanza di incredibile succulenza che nel tempo è diventata patrimonio
della città e piatto principe della gastronomia franciacortina. La più antica ricetta codificata del manzo all’olio è attribuita a Donna Veronica
Porcellaga, nobildonna di Rovato che visse nel 1500. Pochi, gli ingredienti: polpa bovina (scamone o cappello del prete), un bicchiere di olio d’oliva,
due bicchieri di vino bianco, uno spicchio d’aglio, prezzemolo e rosmarino tritati, sale e pepe. In una pentola si lascia insaporire la carne con l’olio
e gli aromi sopra elencati, poi si versa il vino, facendolo evaporare a fuoco vivace. Aggiunto un bicchiere d’acqua, si copre il tutto e si cuoce a
fuoco moderato. Fondamentale che la preparazione avvenga il giorno precedente a quello in cui si consuma: riposando coperta del suo sugo, la carne
s’insaporirà eccezionalmente.
A fine ‘800, la versione tramandata dal ragioniere rovatese Alessandro Natali arricchisce il piatto di un ingrediente chiave, le acciughe. E qui giova ricordare che Rovato, sorgendo sull’asse di scambio Venezia-Milano, durante il dominio della Serenissima costituiva un importante snodo commerciale – ecco perché, in una terra pedemontana vocata al burro, l’uso in cucina delle acciughe e dell’olio d’oliva portati dai mercanti liguri, si affermò in modo naturale. Il Natali raccomanda di cuocere la carne coprendola «con pari quantità d’olio d’oliva e acqua aggiungendo un paio d’acciughe tagliate a pezzetti» e di unire, a cottura ultimata «un pesto con il prezzemolo, l’aglio, le acciughe spinate e pulite e i capperi, facendolo amalgamare per alcuni minuti a fuoco lento». Da gustare non prima di qualche ora, con abbondante polenta. La consacrazione delle acciughe come componente irrinunciabile della ricetta ufficiale arriva oltre due secoli dopo, nel 2017, sancita dal disciplinare della “De.Co” di Rovato dedicata al suo piatto simbolo, dove si specifica inoltre che l’unico taglio ammesso per la pietanza è il cappello del prete e si ricorda l’attesa di una notte prima di servire con l’accompagnamento di polenta o patate e spinaci bolliti. Infine, i membri della Confraternita del Manzo all’Olio di Rovato (istituita nel 2018) caldeggiano nella loro versione l’aggiunta al fondo di cottura di pangrattato e Grana Padano DOP grattugiato, accentuando gusto e cremosità dell’intingolo. Del sontuoso manzo all’olio esistono varianti giocate su dettagli minimi, come la presenza di verdure in cottura. Celebre il Manzo 2.0 del grande chef iseano Vittorio Fusari (che già nel 2011 aveva rivisitato il piatto in versione sushi) «in cui la polenta, cibo dei poveri, diventa un panino per il manzo all’olio, piatto per la borghesia, in cui l’olio di cottura si mantiene a bassa temperatura per non alterare le proprietà nutritive della carne» o quella dello chef Stefano Cerveni, ispirata alla versione “light” elaborata nel 1955 dalla sua pioneristica nonna, Elvira (che ottimizzava l’uso dell’olio in cottura e usava fecola di patate anziché pane per legare la salsa) e da lui ancor più alleggerita senza sacrificare sapore e tradizione.