
Si fa presto a dire mezcal. Certo il distillato messicano sta vivendo una stagione positiva, godendo di un notevole successo commerciale negli Stati Uniti, e anno dopo anno guadagnando attenzione in Europa tra bartender, importatori e appassionati. Tuttavia resta ancora molta strada da fare per capire bene che cosa si debba intendere quando si parla di mezcal soprattutto per cancellare quel luogo comune, in voga fino a qualche anno fa, che il mezcal sia fondamentalmente un distillato piuttosto ruvido, dominato da sentori di fumo e nelle cui bottiglie riposa il “gusano”, quella larva che, un tempo, l’inghiottire con l’ultimo sorso costituiva quasi una prova di virilità per almeno una giovane generazione di italiani. Niente di più lontano dalla realtà.
Il mezcal innanzitutto non va confuso con la tequila: se quest'ultima infatti si produce da una sola varietà di agave, la varietà azul, il mezcal può nascere da almeno una quarantina di varietà diverse tra le quali certamente l’espadin è la più popolare e conosciuta ma non l’unica. E per iniziare a comprendere il mezcal si deve proprio partire dalla terra, dalle agavi e dal disciplinare. Quest’ultimo, pronunciato nel 2016 dal Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal (Comercam), ammette la produzione del mezcal come frutto della distillazione di agave matura, cotta, macinata e fermentata in nove stati: Oaxaca (dove si concentra il 90% della produzione), Guerrero, Puebla, Michoacan, Guanajuato, San Louis Potosì, Zacatecas, Durango e Tamaulipas. Esistono poi tre definizioni di mezcal: quella generica ammette la distillazione continua a colonna e l’autoclave per la cottura, poi c’è il mezcal artesanal per il quale è previsto esclusivamente l'alambicco discontinuo e il forno interrato per la cottura dell’agave e infine l’ancestral, che evita qualsiasi contaminazione meccanica e gli alambicchi in terracotta come forse si usavano in epoca precolombiana.