Simone Padoan IL LONGOBARDO CHE INSEGNA LA PIZZA ALL’ITALIA INTERA -- È curioso trovare una capitale della pizza a San Bonifacio, città a poca distanza da Verona ma a 722 chilometri da Napoli. Sarà perché la Storia si diverte a riaffacciarsi quando meno te lo aspetti. La parola “pizza” è, infatti, longobarda: la “pita” era una focaccia condita con olio (naturalmente senza pomodoro, che arriverà solo sette secoli più tardi dal Sud) cotta in forno dai romani, ma è grazie ai longobardi – che avevano collocato la loro capitale a Verona – che la conosciamo anche oggi, dato che loro pronunciavano la “t” come una “z”. Così la “pita” diventò pizza per sempre. E il longobardo Simone Padoan, classe 1971, da Terrossa di Roncà, s’è scavato un piccolo posto nella Storia. L’hanno definito l’inventore del pizzaiolo del terzo millennio, il padre della pizza-gourmet, l’uomo che ha cambiato faccia al lievitato. Sono 31 anni che impasta pizze, prima nel locale dei fratelli quando non era ancora maggiorenne, e poi nel suo, i “Tigli”, aperto nel 1994 che è presto diventato una meta obbligata segnalata da tutte le guide. Simone ha lavorato sulla qualità, sulle materie prime, sulle preparazioni. Ha trasformato il concetto di pizzeria, sinonimo di cucina casalinga, in un locale di alto livello, raccogliendo premi ovunque. “Ma il massimo riconoscimento per me è l’affetto delle persone”, assicura. Ha sintetizzato il critico gastronomico Paolo Marchi: “La grandezza di Simone Padoan sta nell’avere applicato i parametri dell’alta cucina al più italiano dei piatti italiani. La sua pizza non è più cucina povera e frettolosa, diventa un rito”. È stato un apripista, Simone, perché parlava di lievito madre e tempi lunghi quando il credo puntava sulla velocità e sulle lievitazioni forzate, magari industriali. Il suo segreto è non avere segreti, ma parecchia sensibilità: “Non essendo napoletano è stato più facile proporre qualcosa di differente. Sono concettualmente legato al mondo del lievitato ma anche alla mia zona e alle sue tradizioni”. Basta pensare alla polenta e baccalà che nelle sue mani diventa impasto al mais e un tocco di baccalà mantecato, il tutto legato con uno spinacio. Gira molto nei congressi ma non è un protagonista dello show business: “Deve parlare quello che fai e non il pizzaiolo”, ammonisce. A chi lo chiama maestro, risponde: “Non sono un’icona per nessuno. Mi piace molto quello che scrive Alex Zanardi: lo sport è una metafora della vita, perché quando partecipi a una gara non vuoi superare un avversario, ma te stesso. Punto a fare meglio per migliorare me stesso. Cerco di attingere da tutti per creare qualcosa in più”. In tempi di guru dei fornelli lui, controcorrente, crede nella “cucina di pancia”: “Produciamo otto impasti diversi. Per costruire la pizza servono sette ragazzi che lavorano una giornata intera, ma chi si siede a tavola deve avere un piacere immediato. La pizza deve essere tanto complessa da progettare ma immediata nella percezione”. E se dovesse scegliere una pizza, alla fine Simone punterebbe sulla margherita: “È il massimo della semplicità”. Perché la semplicità è una complessità risolta, avvertiva lo scultore Constantin Brâncusi. //