Ci vollero alcuni decenni per risolvere il problema, ma alla fine la soluzione trovata fu tanto semplice quanto risolutiva. Sulle specie nordamericane, il parassita completa il suo ciclo di sviluppo sulle foglie, mentre sulla vite europea lo fa sulle radici. Innestando quindi le varietà europee su piante americane resistenti all’insetto, si crea un nuovo individuo resistente al parassita.
In questo modo, però, si cambia l’adattamento della vite al suolo, con la possibilità di piantarla su terreni diversi da quelli su cui una determinata varietà si era sviluppata.
La viticoltura quindi tornò a crescere in fretta e, soprattutto, si diffuse in tutte le aree climaticamente adatte, anche in quelle in cui, prima dell’introduzione dell’innesto, non era possibile coltivare la vite, come il Nord America. La fillossera non è però scomparsa: non fa più danni, ma è presente nella maggior parte delle aree viticole e, per evitare la ripetizione di quanto avvenuto a fine Ottocento, si continua a ricorrere a questo sistema, utilizzando portainnesti di origine americana.
Nella ricostruzione postfillosserica molte varietà, che si adattavano meno alla nuova tecnica o erano meno produttive, non furono più moltiplicate e oggi le principali varietà di V. vinifera coltivate nei vari continenti sono solo una cinquantina. In realtà, le varietà conosciute sono migliaia, ma spesso sono presenti solo nei campi di conservazione del germoplasma viticolo e rappresentano un serbatoio importante di biodiversità genetica da cui attingere anche per rispondere a due importanti sfide: la prima, la lotta contro patogeni e parassiti, che dev’essere sempre più sostenibile; la seconda, il cambiamento climatico, che impone nuove scelte nella coltivazione della vite.