Aria di rinnovamento a Montefalco. Fabio Rizzari Non ho mai particolarmente apprezzato i Sagrantino di Montefalco come bevitore. È un’onesta ammissione sul piano dei gusti privati, non su quello del mestiere di degustatore. Sul lavoro ho sempre cercato di onorare la prima e più elementare regola della deontologia: interpretare un vino cercando di scindere i gusti personali dalle valutazioni professionali. Un’impresa non facile, perché, in effetti, il bizzarro lavoro del critico enologico richiede una sorta di schizofrenia sensoriale e mentale. Il vino è un oggetto di lavoro, quando si degusta, e insieme una fonte di piacere e convivialità fuori del contesto degustativo. A qualcosa di simile si riferiva Picasso – si parva licet, eccetera – quando affermava: “ ”. Per questa, chiamiamola tiepida, attitudine verso il Sagrantino, in decenni di attività ho visitato il distretto produttivo di Montefalco solo un paio di volte, l’ultima nel secondo dopoguerra. A torto, ovviamente. Il territorio, morbidamente collinare, è particolarmente piacevole da percorrere. Il borgo è ricco di testimonianze storiche, e non occorre usare toni da dépliant turistico per enfatizzarne il fascino: è evidente anche a un occhio distratto. I vini, direi soprattutto lo stile dei vini, sono un altro paio di maniche. Dopo aver dipinto tutto il giorno sono stanchissimo, e la sera per rilassarmi dipingo un po’