Barbaresco. Due visioni dell’altro signore di Langa. Fabio Rizzari Così si esprimeva Gianni Brera in un’intervista televisiva degli anni Ottanta del secolo scorso. Il Barbaresco buono che restaurava Brera è stato un prezioso alleato per chi come me – oggi vecchiotto – leggeva con regolarità gli articoli puntuti e spesso folgoranti del grande scrittore scomparso nel 1992. Il gran lombardo aveva un ottimo palato, e la scelta del magnifico rosso langarolo lo conferma. Poche tipologie di vino hanno una storia altrettanto illustre di quella del Barbaresco, che – al netto di ogni tono zuccherosamente retorico – è uno dei rossi migliori d’Italia, d’Europa, dell’emisfero boreale, del mondo, del sistema solare. “C’è stato un periodo folle della mia vita in cui la domenica scrivevo da venti a ventiquattro cartelle: quattro articoli, di cui l’ultimo occupava l’intera prima pagina del Guerino. Quando finivo io ero assolutamente fuori di me. Andavo alla macchina che sapeva la strada della stalla – come certi cavalli, no? – e mi portava all’osteria, dove ero atteso da amici. Incominciavo a bere del Barbaresco buono e a nutrirmi. Pian pianino il cervello, che era un organo dolente, veniva sommerso da un benessere nuovo che era il cibo e il vino. Ecco, questo aveva un significato, proprio di restaurazione. Ma poi non credere mica che quello che dico si scrive da ubriachi, non si centrano assolutamente i tasti della macchina, se sei ubriaco. Sai, quei grovigli di tasti quando sei un po’ sbronzo che sorpreso dalla richiesta del giornale che vuole un altro articolo… allora tu hai già mangiato e bevuto, convinto di poter andare a dormire tranquillo, e devi fare un pezzo… ti si aggrovigliano tutti i tasti, un disastro. Per scrivere bisogna essere chiari di mente. Quindi è chiaro che poi bevi, perché ti piace e perché ne hai necessità fisiologica, oltre che spirituale”. Giuanin