Chablis e i suoi Grand Cru. Roberto Bellini Il fiume Yonne dà il nome al dipartimento dove si trova l’AOC Chablis. Era il 1790, quindi in piena Rivoluzione francese, quando fu creato, assemblando uno spicchio di territorio dell’Île de France, uno della Champagne e uno della Borgogna. Tra le prime eccentriche curiosità di questa parte di Francia una sta proprio nel fiume Yonne, che geograficamente andrebbe considerato non come affluente della Senna, bensì viceversa, perché la portata di acqua dello Yonne è superiore; purtroppo, la Senna fu considerato sacro dai druidi, poi i Romani lo elevarono a divinità e fecero nascere quello che tecnicamente si dovrebbe definire un pastrocchio. Ma noi dobbiamo parlare di vino, di Chablis, e questo non è assolutamente un pastrocchio. Il nome Chablis ha origine celtica e assorbe le parole “cab” (casa) e “leya” (vicino al bosco). Gli storiografi ci dicono che già in epoca neolitica c’era un villaggio nella Valle del Serein, durante l’era dei Galli divenne un borgo fortificato che probabilmente disponeva di alcuni vigneti. Come in altre parti dell’odierna Borgogna sono stati i monaci cistercensi, dopo i Romani, a sviluppare la viticoltura, con una dedizione e una professionalità che portò il vino di Chablis a veleggiare nei mari dell’eccellenza, e analizzando con accuratezza il suo passato si scopre che non era secondo ad alcun altro vino bianco di Borgogna, anche di quelli che oggi sono quasi diventati degli eno-gioielli. Chablis potremmo definirla una denominazione vitivinicola perimetrica, la personalizzazione identitaria come vigneto, ovvero come Climat, era già in essere nel 1429 grazie all’opera dei monaci dell’Abbazia di Pontigny, con quella politica filosofica della protezione del confine della qualità che trova dimensione nel termine “cru”.