È il mese di luglio del 1990 e a Milano al Besta, una struttura ospedaliera specializzata nel campo delle più gravi malattie neurologiche, fa molto caldo ma lui non si lamenta. Non si è mai lamentato. Solo una volta, ancora sotto l’influsso benefico dei sedativi postoperatori, stupendomi al limite della comicità, ad una mia frase banalmente rassicurante del tipo “vedi che l’operazione è andata bene e non senti alcun male”, mi rispose in modo stranamente diretto: “starai bene tu!”. Dico “stranamente”, perché in realtà mio padre non si era mai rivolto a me con molta naturalezza o confidenza. Era sempre stato un uomo, come si suol dire, tutto di un pezzo, forgiato da esperienze di vita sicuramente non comuni: non saprò mai, per esempio, se si fosse reso conto del male incurabile che improvvisamente lo aveva colto al cervello, senza lasciare spazio ad alcun tipo di speranza e che gli avrebbe lasciato poco tempo per vivere. I medici avevano infatti pronosticato, se fosse anche andata bene l’operazione, non più di cinque mesi e mezzo.
E così fù.