Il nome Dolceacqua trae dolcemente in inganno perché qui, nel Ponente Ligure, il paesaggio è impervio e il vignaiolo deve strappare a pareti scoscese un po’ di terra per coltivare la vite senza l’uso di chiodi e corde da rocciatore. Lo fa da sempre con l’astuzia dei terrazzamenti: si plasma faticosamente il profilo della ripida collina ritagliandosi piccole superfici semipianeggianti, che si cingono di muretti a secco. Le piante sono coltivate ad alberello, con sesti d’impianto – se è lecito impiegare un termine tanto geometrico per un sistema così arcaico – molto fitti.
L’uva della zona è il rossese, geneticamente imparentato con il tibouren (detto anche tantiboulen o antibois o geysserin in Provenza), varietà gracile e caratteriale: facilmente attaccabile da muffe e parassiti data la finezza della buccia dell’acino, dà vini poco colorati e profumatissimi; con un fondo salino che suggerirebbe ai burocrati locali di cambiare il nome da Dolceacqua al più pertinente Vinsalato. «Il rossese non è vino che vuole diventare vecchio [...]. Ma la sua bontà è subito conclusa, cosicché questo raro vino (che ha un bel colore rubino, un lieve profumo di fragola e un grandissimo gusto che quando il liquido passa sotto l’ugola si lascia addietro un che di amariccio) ha le piacevolezze del vino giovane, e tutte le severe virtù di quello invecchiato». Così Paolo Monelli in O.P., ossia il vero Bevitore (Milano, 1963). Noi osiamo contestare il nume tutelare monelliano affermando che oggi – e forse sta nella distinzione temporale il motivo della discrepanza di opinione – i migliori Rossese sono buonissimi da giovani e anche da maturi, dopo molti anni di bottiglia. La versione firmata da Marco Blancardi viene da una piccola vigna di poco più di un ettaro a Perinaldo, coltivata in regime bio e anche dinamico.
Il vignaiolo si plasma faticosamente il profilo della ripida collina ritagliandosi piccole superfici semipianeggianti, che si cingono di muretti a secco
La vinificazione, spartana e priva di artifici (lieviti indigeni, niente chiarificazioni, niente filtrazioni, minime solfitazioni), dà un vino inizialmente restio ad aprirsi all’olfatto, ma – con il debito incoraggiamento di chi gestisce la rotazione del bicchiere – via via più chiaro e leggibile, su note di ciliegia selvatica e arancia amara. Fresco, arioso e scattante al palato, ha tutte le virtù che un buon bevitore richiede a un vino sincero. Con un unico, grave limite: la bottiglia finisce troppo presto.