Ricevere – come si dice, con espressione un po’ retorica – “la terra dai propri padri” è nei fatti un privilegio, ma può essere una condanna; di certo, talvolta, è l’inizio di un’avventura. Ricevere questa terra alla Valgella, una tribuna di vertiginose terrazze collegate tra loro da un reticolo di scalinate di pietra a picco sulla Valtellina interna, eleva al quadrato l’assunto iniziale e al cubo le conseguenze. Così, Maria Luisa Marchetti, di professione insegnante a Teglio, si è trovata una quindicina di anni fa – parole sue – a un trivio, in cui ciascuna strada appariva ugualmente complicata da seguire. Si poneva la scelta tra vendere tutto, lasciarlo andare in malora, oppure recuperarlo e metterlo in produzione pur senza poter contare su una cantina; ma sarebbe servito il sacrificio del proprio lavoro scolastico. E il sacrificio fu fatto. Dopo anni di conferimento di uve o di produzione “per gli amici”, ecco i primi imbottigliamenti autonomi, e una piccola diffusione locale. Che ci ha permesso di conoscere un gioiello rimasto finora per noi ignoto: il Valgella che porta il toponimo di Sant’Eufemia, un rosso sobrio, minuzioso, di profondo significato; peraltro una creatura fragile, come tutti i vini di qui, creature d’aria. Il Sant’Eufemia (la patrona di Teglio) viene da un vigneto tra i 500 e i 600 metri di altitudine; il suolo propriamente detto non supera il mezzo metro e spesso neanche i 30 centimetri: è un autentico “succo di roccia”, in pratica.
Viene da un vigneto tra i 500 e i 600 metri di altitudine; il suolo propriamente detto non supera il mezzo metro e spesso neanche i 30 centimetri: è un autentico ‘succo di roccia’
Il vino, che matura un anno e mezzo in botti da 10 ettolitri, è trasparente, dettagliato, intensamente speziato “di suo” grazie alle risorse aromatiche del Nebbiolo di Valtellina, che vi si esprime anche in una timbrica fruttata che l’acidità finisce per illuminare. Ultima nota per l’etichetta, che sembrerebbe raffigurare una decorazione pavimentale o parietale, e che invece allinea quindici simboli medievali apotropaici – veri e propri scongiuri contro il maligno in forma sintetica – che venivano tracciati nei sottotetti delle case (e dei campanili delle chiese!) a scopo protettivo.