LIBELLO
SEQUERCIANI

All’inizio degli anni Novanta, Ruedi Gerber cercava in Maremma una casetta per le sue vacanze. Arrivato a Tatti, capisce subito che la Toscana delle pievi e dei cipressi, con quella spiritualità da cartolina, stereotipata e posticcia, non abita qui. Al contrario, si ritrova in una terra selvatica e venata di asprezze, odorosa di macchia e di resine, dove la luce abbacina e la gente va per le spicce e conserva diffidenza. Ma la diffidenza della gente, per uno che è nato in Svizzera, deve essere l’ultimo dei problemi. E infatti Gerber, cineasta con il bernoccolo del documentario e un naturale talento per l’osservazione e l’ascolto, rimane presto soggiogato da una bellezza animata da tanti contrasti. E si avventura in un’impresa ben più impegnativa del piccolo acquisto che aveva messo in preventivo: è il genius loci a dettare le regole e a stravolgere il business plan. «Ho comprato una casa con della terra per trasformarla in una terra con una casa». Prima la terra, dunque: il progetto del Podere Sequerciani mette subito avanti la sua identità agricola e se ne fa vanto. Ecco perciò il grano, coltivato in biodinamica nelle storiche varietà Senatore Cappelli e Verna; ecco il vecchio uliveto con le cultivar locali, tra le quali il raro Lazzero; ed ecco il vigneto, anche questo orientato verso il coraggioso recupero di varietà autoctone quali pugnitello e foglia tonda, e risolutamente condotto secondo i dettami della biodinamica. I primi imbottigliamenti esplorano diverse strade e cercano di prendere le misure all’espressività dei vitigni, specie per quanto riguarda gli affinamenti in anfora.

Una terra selvatica e venata di asprezze, odorosa di macchia e di resine, dove la luce abbacina e la gente va per le spicce e conserva diffidenza

Come spesso accade in questa fase ancora embrionale, sarà perciò nei vini più semplici che andranno cercati gli esiti più convincenti. Non fa eccezione il Libello, un rosso che coniuga sangiovese e ciliegiolo nel segno della bevibilità: agile, succoso, di invidiabile spontaneità espressiva, sembra plasmato dallo stesso dinamismo di certa danza postmoderna a cui Gerber ha dedicato i suoi documentari artistici. Magari non avrà l’afflato rivoluzionario di Anna Halprin o Trisha Brown, ma sprigiona un’energia altrettanto inarginabile.