Va detto a scanso di equivoci che noi nutriamo un’ammirazione sconfinata per Joško Sirk e per la sua splendida famiglia. Il privilegio di essere stati di casa alla Subida di Cormons negli ultimi quindici anni, prima come anonimi avventori, poi come amici, ci ha alleggerito dei pochi scrupoli di imparzialità residui, trasformandoci da simpatizzanti in ammiratori, se non proprio in tifosi.
Questo solo per anticipare che a qualunque creazione targata Sirk avremmo in ogni caso riconosciuto lo status di capolavoro, fossero anche state forme per scarpe o guinzagli per barboncini, poco importa. Si dà però il caso che ai Sirk interessi trasformare l’uva, processo nel quale ci troviamo coinvolti anche noi con qualche competenza, supposta o pretesa che sia. Una competenza ancora piuttosto modesta – dobbiamo ammetterlo – relativamente al tipo di trasformazione intrapresa da papà Joško, che si è imposto nel giro di poche vendemmie come uno dei più quotati produttori di aceto da uva intera di tutta la galassia (anche perché di matti viticoltori che destinano la propria uva direttamente all’aceto non è che ce ne siano poi tanti in giro per la galassia). Dove invece la nostra competenza si fa più ambiziosa e smaliziata è nel tipo di trasformazione con cui ha deciso di misurarsi suo figlio Mitja, viticoltore anche lui ma con progetti meno stravaganti: fare vino.Tiene a battesimo le aspirazioni produttive di un giovane vignaiolo, che si è fatto le ossa con vendemmie nei posti giusti per tornare poi a misurarsi con quanto aveva di più familiare
Questo Bianco della vendemmia 2016 tiene perciò a battesimo le aspirazioni produttive di un giovane vignaiolo, che si è fatto le ossa con vendemmie nei posti giusti (da Isole e Olena, da Roberto Conterno e da Dujac in Côte d’Or) per tornare poi a misurarsi con quanto aveva di più familiare. «Dobbiamo tornare a qualcosa che sappiamo già, che abbiamo già sotto i nostri occhi e che in qualche modo non vediamo». Sono parole di Wittgenstein (Ricerche Filosofiche, Einaudi 1967) ma starebbero bene sulla bocca di molti vignaioli, Mitja compreso. Il suo b(i)anco di prova è il friulano e il progetto prevede vinificazioni esplorative, ogni anno da un vigneto diverso, per verificarne le molteplici risorse espressive. Si parte da una vigna piantata a fine anni Cinquanta vicino al confine sloveno, sulla collina di Ruttars, nome che in tema di vini “da strabere” è già tutto un programma. Vinificato in acciaio, è un bianco senza fronzoli, sottile e scorrevole, vocato alla convivialità: va giù che è una bellezza. Mitja lo definisce un “vino-adolescente”, dal carattere ancora un po’ turgido e sfuggente. Lasciamolo crescere.