Nel borsino dei vini di cui si parla molto, prima ancora di berli, il Trebbiano Spoletino è in ascesa costante: ha realizzato almeno un 300% di crescita nella stima dei bevitori à la page durante l’ultimo decennio. Da giovane promessa, conosciuta da una cerchia di circa nove persone in tutto, a bianco modaiolo protagonista dei passaparola del settore: un percorso veloce ma basato su fatti concreti.
L’uva di base, per cominciare, non va confusa con il trebbiano diffuso in Toscana, né con la variante abruzzese: coltivata tradizionalmente tra Spoleto e Montefalco, dà vini di affilata freschezza acida, che provano addirittura a vincere il proverbiale mutismo aromatico del vitigno accennando anche en vin jeune a note floreali e salmastre sopra la soglia di percettibilità olfattiva media. Negli ultimi tempi ne abbiamo provate diverse interpretazioni, dal bianco macerato da enologi maceratesi con macerazione macerativa (ed esiti ipermaceranti per il palato) al bianchetto di acidità perfida e insidiosa. Una delle più convincenti proviene da una piccola vigna nelle campagne dei Colli Altotiberini presso Umbertide, di proprietà di un facoltosissimo uomo d’affari inglese (pare che il suo commercialista personale sia Warren Buffet), Jeremy Sinclair. Costui nel 2009 ha acquistato un’area equivalente per estensione alla citta di Todi, con tanto di oliveti, diga, pieve medievale (del 1270), annessi e connessi. Le vigne, recuperate all’abbandono degli anni Cinquanta, contano oggi poco meno di sei ettari, dei quali circa la metà a trebbiano spoletino. Vinificato con la saggia collaborazione di Giovanni Dubini, storico produttore di bianchi austeri, raffinati, longevi, ci ha colpito per l’esuberante dinamica gustativa, davvero difficile da contenere in termini di intensità e contrasto, e per uno spettro aromatico ancora incompiuto, certo, però netto e focalizzato.
L’uva di base, coltivata tradizionalmente tra Spoleto e Montefalco, dà vini di affilata freschezza acida, che provano addirittura a vincere il proverbiale mutismo aromatico del vitigno
Il nome viene da una piccola pieve inglobata nella tenuta, restaurata dal magnate anglosassone e riportata al pristino splendore. Sfuggendo sia alle insidie del bianco che cade nel finale per la lunga coda alcolica, sia all’opposto a quelle del bianco marrone scuro per l’ipermacerazione, si pone da subito come modello ideale per la tipologia.