VENTIVENTI TREBBIANO
TENUTA SANT’AGOSTINO

Forse nessun luogo del vino italiano ci ha sorpreso quanto la campagna di Solopaca, sul versante nord del Taburno, in pieno Sannio beneventano. Tendoni e filari occupano la prima pendice del grande monte, del quale alcune frane ai lati delle strade che lo scalano hanno svelato il bianco delle rocce calcaree. In basso, placidamente, scorre il fiume Calore, senza argini; sulle sue sponde irregolari, mucchi di sassi bianchi e rosa.

Osservando i vigneti, molti dei quali di età matura quando non veneranda, un agronomo si accorgerebbe subito che le varietà messe qui a dimora non sono solo quelle tipiche sannite, cioè la falanghina e l’aglianico, ma anche quelle del “boom” produttivo italiano anni Sessanta, cioè la malvasia bianca, il trebbiano toscano, il sangiovese e persino il lambrusco. La denominazione di origine locale, concessa nel 1973, si basa su di essi, a ratificare la destinazione reale degli impianti, non quella ideale; e la cantina cooperativa da 1.300 ettari che intercetta i conferimenti di quasi tutti i vignaioli locali sforna ogni anno una percentuale elevatissima del solopaca prodotto in totale. La zona è dunque una specie di serbatoio di vini per il consumo quotidiano, finalità onestissima e anzi necessaria, anche per questioni occupazionali; ma che rinuncia nei fatti all’ambizione di rendere nel bicchiere un terroir che lo meriterebbe. Cercare qui un vignaiolo che imbottigli in proprio tentando di far emergere la qualità ambientale di Solopaca è dunque come cercare un ago in un pagliaio; eppure, ne esistono, e qui ce n’è un esempio, assai recente. La famiglia Ceparano, quattro fratelli, ha ripreso in mano i sette ettari di vigne familiari nel 2013, e anziché spiantare tutto, rinnegando le varietà sopra citate, è partita da loro.

Tendoni e filari occupano la prima pendice del grande monte, del quale alcune frane ai lati delle strade che lo scalano hanno svelato il bianco delle rocce calcaree. In basso, placidamente, scorre il fiume Calore

Quattro le etichette sinora licenziate, tutte di vino bianco da monovitigno, due da trebbiano e due da malvasia. Sono una più intrigante dell’altra: entrambi i vitigni sono proposti in duplice interpretazione, a seconda della maturazione in acciaio o in anfora. L’idea che ci siamo fatti è che la Malvasia “reagisca” ottimamente all’élevage in anfora, il Trebbiano a quello in acciaio. Quest’ultimo vino, a nome Ventiventi, è il classico “finto-semplice” con profumi di fiori bianchi, clementine e un che di delicatamente erbaceo, ma il sorso ne riferisce la qualità della materia prima, la nitidezza di disegno, la piacevole salinità dell’epilogo.