Se non avete mai sentito parlare del Sagrantino di Montefalco siete in ottima compagnia. “Qui al ristorante mi è capitato di incontrare sommelier italiani che non sapevano nulla di questi vini,” dice Roberto Paris, il cortese e cordiale gestore e sommelier del Buco, nell’East Village di New York. Paris ha il vantaggio di esser nato a pochi chilometri dalla cittadina di Montefalco, all’incirca a metà strada tra Perugia e Spoleto, in Umbria. “Il primo vino in bottiglia che abbia mai bevuto era un Sagrantino,” dice facendo una smorfia: “Terribile.”
Qualche anno fa, quando Paris mi versò il mio primo Sagrantino, un Paolo Bea del ’95, ebbi una reazione molto diversa. Mi sentii un po’ come Keats che sfogliava per la prima volta l’Omero di Chapman. O come quando scoprii l’opera del pittore Piero della Francesca di Borgo Sansepolcro, dove la Toscana confina con l’Umbria, così particolare e bizzarra in confronto a quella dei suoi contemporanei romani e fiorentini. Il Bea era una bellezza scura in un abito fatto in casa – mi fece pensare alla focosa, rustica sposa siciliana di Michael Corleone/Al Pacino nel Padrino. In un periodo in cui i vini italiani cominciavano ad avere il gusto di quelli della Napa Valley, questo era un vino con un’anima.
Quando quella sera tornai a casa e cercai di saperne di più, i miei libri di consultazione non mi furono di grande aiuto. The Oxford Companion to Wine dedicava un trafiletto stranamente povero di informazioni al vitigno, notando che il Sagrantino di Montefalco ha ricevuto il suo status di DOCG solo verso la metà degli anni novanta. (Per la precisione nel 1992.) Il New Wine Atlas di Oz Clarke riservava all’Umbria un unico paragrafo. Paolo Bea non compariva neppure sul Gambero Rosso, la bibbia dei vini italiani, anche se c’era una voce su altri tre produttori del misterioso Sagrantino di Montefalco.
Cominciai a cercare il Sagrantino sulle carte dei vini qui a New York, scoprendo una gamma piccola e tuttavia variegata di vini, per lo più carnosi, potenti, amari e speziati. A volte mi ricordavano il Syrah, o il Petite Syrah. Il Sagrantino è più robusto, ricco e tannico del Sangiovese, il vitigno dominante nella vicina Toscana. Il Sagrantino ideale, per me, ha il sapore di more e cioccolato amaro con una spruzzata di cannella, noce moscata e chiodi di garofano.
“Le origini del vitigno sono molto misteriose,” mi ha detto di recente Paris. “Secondo una teoria furono i crociati a portarlo con sé al ritorno dal Medio Oriente.” Probabilmente, se fosse stato di origini romane o toscane avrebbe avuto una più vasta diffusione. Qualunque sia la ragione, la coltivazione del Sagrantino è limitata a una minuscola zona intorno alla città di Montefalco. Fino a poco tempo fa la maggior parte delle uve veniva lasciata appassire per produrre un dolce passito; una piccola parte veniva usata per farne vino da messa. La storia attestata del rosso secco comincia nel 1971, quando Arnaldo Caprai fondò la sua azienda vitivinicola. Caprai è il pioniere che in sostanza creò il Sagrantino così come lo conosciamo – ammesso che lo conosciamo. La relativa oscurità del Montefalco dipende in parte dall’esiguità della produzione; a quanto mi pare di capire ci sono solo dieci o dodici produttori seri, e la maggior parte di loro non fa più di un paio di migliaia di casse. Secondo Paris, l’altro problema – siamo in Italia, dopo tutto – è che “i litigi impediscono loro di collaborare”.
Caprai è l’unico produttore a mettere in circolazione una quantità di vino sufficiente ad avere un qualche impatto sul mercato, e l’unico che abbia realmente assunto un approccio scientifico, sperimentando con cloni e portinnesti. Per restare più aderenti all’argomento, i suoi vini sono eccellenti e, a differenza di quelli dei suoi vicini, hanno un carattere in qualche modo uniforme; gli originali vini di Paolo Bea, rivale di Caprai (per la stima degli aficionados del Sagrantino), possono avere un sapore molto diverso non solo a seconda dell’annata, ma addirittura della bottiglia. Me lo immagino a pigiare le uve con i propri piedi e a imbottigliarle a mano – e preferisco conservare queste immagini piuttosto che chiamare il suo importatore, Neal Rosenthal, per sapere come stiano effettivamente le cose. Nelle questioni di cuore, e degli appetiti più bassi, il mistero è spesso più stimolante della conoscenza.
Una cosa su cui posso giurare: Bea non usa nuove barrique di rovere, ed è questa una delle ragioni per cui i suoi vini hanno quel je ne sai quoi. Altri produttori stanno facendo lo stesso, e sebbene le barrique nuove siano in grado di smussare le spigolosità del Sagrantino, nelle mani sbagliate possono anche dargli un gusto pericolosamente simile al Cabernet toscano o allo Shiraz australiano. Tale è il caso di Còlpetrone, che ottiene regolarmente i tre bicchieri del Gambero Rosso (che, scandalosamente, nel 2005 non aveva ancora una voce per Bea) e a me pare abbia il gusto, per fare un esempio, di un buon Cabernet di Stellenbosch, in Sudafrica. Scacciadiavoli è passato a barrique nuove con la vendemmia ’98, senza perdere troppo dell’animo eccentrico del Sagrantino.
Questo dovrebbe essere il punto in cui vi dico che questi oscuri vini sono un grande affare. Mi spiace. Un buon Sagrantino costa più di un Chianti famoso, ma comunque meno di un celebre Cabernet della Napa Valley. Il Sagrantino più avvicinabile è al momento l’Antonelli, da non confondere con la gigantesca azienda fiorentina Antinori. Anche le grosse aziende stanno però entrando nella zona – di recente la famiglia toscana Cecchi ha comprato Tenuta Alzatura a Montefalco.
Le annate di Montefalco sono solitamente simili a quelle del vicino Chianti. I prezzi di alcuni produttori si stanno alzando in seguito alla striscia di buone annate e al crescente status di culto dei vini, per non parlare del fastidioso declino del dollaro rispetto all’euro. Francamente, non sono troppo sicuro di voler spargere la voce e accrescere di conseguenza la domanda – ma che farci, è il mio mestiere. Cercate solo di non dirlo troppo in giro.