L’azienda vinicola Brewer-Clifton ha un aspetto a dir poco insignificante: è in un magazzino dalle pareti di alluminio in una piccola zona industriale ai margini di Lompoc, in California, città nota soprattutto per il suo carcere. Non la vedrete di certo nel film di Alexander Payne In viaggio con Jack, ambientato nelle parti più pittoresche della campagna vitivinicola della contea di Santa Barbara. Chiamatemi capriccioso, o postmoderno, ma dopo tutti questi anni di visite a châteaux ipertrofici e muniti di alti cancelli nella zona di Bordeaux e nella Napa Valley, trovo anzi la Brewer-Clifton quasi romantica. Il complesso di magazzini comprende altre dieci aziende vinicole e viene affettuosamente soprannominato dai suoi abitanti il “ghetto del vino”. Tre decenni dopo che Richard Sanford e Michael Benedict dimostrarono il potenziale della zona per i vitigni bordolesi, Steve Clifton, Greg Brewer e altri sperimentatori senza terra stanno lavorando in capannoni e magazzini in affitto per spingersi ai limiti con stili radicalmente nuovi di Pinot Noir e Chardonnay.
Prima che gli venisse la mania del vino, Brewer era docente di francese all’Università della California di Santa Barbara; Clifton suonava la chitarra in un gruppo rock ed era uno dei proprietari di un locale notturno a Laguna Beach. Brewer, che ha il fisico di un levriero, anche grazie a un fanatico regime ciclistico, è il tipo di persona che si sveglia alle tre di notte per controllare le sue figlie e poi i suoi tini. Clifton, che pare una versione più giovane di William Petersen, star di C.S.I., e ama il surf, ha l’aria di chi a quell’ora potrebbe andare a letto – o almeno è quanto immagino dopo un paio di serate trascorse con lui negli ultimi anni, compreso un incontro casuale in Friuli, durato circa nove ore. Questo contrasto tra apollineo e dionisiaco si riflette sui vini, quasi paradossali nella giustapposizione di maturità e acidità, voluttà e ossatura – in altre parole, vini che sanno il francese, ma anche dimenare le chiappe sulla pista da ballo.
L’anno scorso, quando arrivai nella loro cantina a metà della vendemmia, sia Brewer sia Clifton stavano saltellando tra i tini e le botti lì stipate al fragoroso ritmo drum-and-bass del CD mixato dalla moglie di Clifton, Crystal. L’aria era densa dell’odore inebriante di uve Pinot Noir in fermentazione. Kris Curran, la loro vicina nel ghetto dei vini che produce un nuovo Pinot di successo, il Sea Smoke, è passata di lì per chiedere se hanno della ceralacca rossa. (Ceralacca?) Sì, i ragazzi hanno la ceralacca; la usano per sigillare a mano i tappi. Clifton mi versa un bicchiere del loro Chardonnay Santa Rosa – che all’inizio è ingannevolmente carnoso e rotondo, e poi mi sveglia di colpo con una stoccata d’acidità – e spiega che la Santa Ynez Valley, nella quale l’aria del Pacifico si incanala verso l’entroterra per via dell’orientamento da est a ovest: “è un luogo veramente estremo; il modo in cui cresce la frutta è pazzesco, e bisogna sfruttarlo al massimo.”
Non si può dire che loro non lo facciano: i vini Brewer-Clifton sono controversi, ed estremi. I due si sono conosciuti a una degustazione del Rotary Club a Goleta, quando entrambi lavoravano per altre aziende. Entrambi sognavano di potersi spingere oltre ogni limite producendo il loro vino, ed è all’incirca quanto hanno fatto da quando si sono messi in proprio. Una pratica estrema: fermentazione a grappolo intero per il Pinot – ossia lasciando tutti i raspi, dato che possono dare un tocco “verde” che a loro avviso rende il Pinot ancora più strutturato. Le uve dei Brewer-Clifton vengono da vigne ripide e fredde, e solo un terzo di esse matura in nuove botti di rovere prima di venir miscelato con le altre, cosa che potrebbe spiegarne in parte l’esuberanza.
Clifton mi accompagna in auto a est di Lomboc per vedere alcune delle fonti della Brewer-Clifton, e man mano che procediamo la valle si scalda – fino a un grado ogni tre chilometri, dice lui. A est della cittadina kitsch di Solvang il clima è abbastanza caldo da coltivare Syrah e persino Cabernet, ma sono le fresche colline immerse nella nebbia di Santa Rita, tra Lompoc e Buellton, i luoghi ideali per i vitigni bordolesi. Gli Chardonnay e i Pinot di questa regione hanno spesso una maggiore acidità naturale dei loro corrispettivi sulla costa a nord. Nessuno ha più brio, precisione e tensione di quelli della Brewer-Clifton. Gli amanti degli Chardonnay grassi e burrosi e dei Pinot voluttuosi potrebbero trovarli troppo nervosi.
Clifton mi addita l’Ashley’s Vineyard, di proprietà di Fess Parker, diventato famoso grazie al film Davy Crockett, da cui la Brewer-Clifton acquista uve Chardonnay e Pinot. Dall’altra parte dell’autostrada c’è l’azienda color senape e in stile toscano di Melville Vineyards, il cui enologo è Brewer e da cui il duo acquista anche uve per il proprio marchio. Fortunatamente, per coloro che amano lo stile Brewer-Clifton, i Pinot e gli Chardonnay della Melville vengono prodotti in quantità leggermente maggiori.
Come enologo, Brewer ama paragonarsi a uno chef di sushi: è un minimalista che vuole lasciare le uve e il vigneto liberi di esprimersi senza interferenze. Consciamente o inconsciamente, l’ex docente pare far eco a Flaubert quando dice: “Voglio essere invisibile, voglio togliermi di mezzo, non voglio un marchio stilistico.” L’espressione più radicale di questa filosofia è uno Chardonnay Melville chiamato Inox, che non matura nel rovere e non viene sottoposto a fermentazione malolattica – la fermentazione secondaria che crea quel familiare gusto burroso. Uno Chardonnay di Santa Rita nudo, per così dire.