Waugh on Wine, che, pagina dopo pagina, si dimostra lo scritto sul vino più vivace e pungente del secolo. Waugh si definiva “un adepto delle arti della vituperazione”; un articolo da lui scritto sull’Islam scatenò la rabbia di una folla che distrusse un edificio del British Council a Rawalpindi. Credeva che la scrittura sul vino non dovesse essere meno stravagante e sregolata del commento politico.
“Lo scopo dell’aperitivo non è certo quello di ubriacare,” dice del primo bicchiere della giornata. “Questo dovrebbe avvenire grazie al vino o, nel caso ciò non riesca, al Porto e ad altre delizie nel prosieguo.” Il brano mostra la potenza retorica di Waugh in tutta la sua gloria: la prima frase ci fa ingannevolmente credere che lo scrittore sia diventato metodista o politicamente corretto, la seconda demolisce tale idea con un diretto destro e un rapido gancio sinistro. Ciò dicesi senso dell’umorismo, per quelli tra voi che hanno letto troppe pubblicazioni enologiche.
“La critica enologica dovrebbe essere a tinte forti,” scrisse in un saggio. “L’autore non dovrebbe mai apprezzare un vino, dovrebbe innamorarsene; non dovrebbe mai trovare deludente un vino, ma ravvisare in esso un nemico mortale, un tentativo di avvelenarlo. Andrebbero proclamati retrogusti bizzarri e inverosimili: funghi, legno marcio, melassa nera, matite bruciate, latte condensato, liquami, odore di stazioni ferroviarie francesi o biancheria intima femminile.”
Tenne fede a tale impegno. “Una terribile quantità di sofferenza inutile va sotto il nome di Liebfraumilch,” dichiarò. Le sue parole chiave predilette erano “osceno” e “disgustoso”. Nelle vesti di capo di un club del vino, una volta proclamò una proposta “anale,” e riferì divertito che andò immediatamente esaurita, un fatto che secondo lui la diceva lunga sui suoi connazionali. Nella rubrica su “Tatler”, descrisse il vino della casa di suo cugino come una bevanda “di mirabile orrore... quell’infame bibita sapeva di aceto, inchiostro blu e curry”. Non pago, aggiunse che gli ricordava “un mazzo di crisantemi appassiti sulla tomba di un bimbo nato morto delle Indie Occidentali,” osservazione che gli fece perdere il lavoro per “Tatler”. (Spiegò al Press Council,4 che lo convocò per rispondere dell’accusa di razzismo, che era stato il retrogusto di curry a evocare quell’immagine.)
Bron, come lo chiamavano tutti, era più acuto nell’insulto che nella lode, ma nei suoi articoli sul vino, a differenza di quelli di critica letteraria, era sempre in cerca d’amore. Descrisse il rosso di Bandol come “uno splendido rosso dalle tinte cupe, terra bruciata, che migliora man mano che lo si custodisce”. Si lasciava prendere dall’entusiasmo parlando di Condrieu e Châteauneuf-du-Pape. Il suo primo amore era stato il Borgogna, o meglio, una bevanda scura con quel nome che ricordava dalla cantina del padre. Si definiva un “amante abbandonato del Borgogna rosso”. Nella sua ricerca di questa mitica bevanda di remote cene nella casa di campagna, assomigliava a Gatsby che inseguiva Daisy Buchanan. Chiunque legga tali descrizioni di Waugh di vecchi Borgogna penserà che stesse scrivendo dello Châteauneuf-du-Pape, e in un certo senso era così; fino agli anni trenta, il Borgogna veniva regolarmente rinforzato con succo maturo e vigoroso del Rodano e del Midi-Pirenei. E naturalmente, da vecchio aristocratico stizzoso qual era, Waugh amava il porto.
Lo snobismo di Bron era mitigato dalla sua maniacale parsimonia – non amava nulla più di un affare, di economici Cabernet spagnoli o Merlot italiani in grado di surclassare le migliori annate di Bordeaux. In effetti, al centro della sua passione di enofilo sembrava esserci la ricerca di succedanei convenienti dei vini di Borgogna e Bordeaux. Anche se dava agli americani la colpa di aver fatto lievitare il prezzo di questi tesori, e di molti altri mali della civiltà, finì per diventare un cultore dei Cabernet della Napa Valley.
Alla morte di Bron, avvenuta nel 2001, le ampie espressioni d’affetto sulla stampa inglese apparvero sconcertanti a molti di coloro che non l’avevano mai conosciuto. Aveva un esercito di amici estremamente variegato e devoto, e nessuno di loro mancò di commentare la discrepanza tra la sua personalità pubblica e quella privata. Di persona, la sua arguzia era sempre benevola e autocritica; avrebbe preferito passare la serata a bere Liebfraumilch piuttosto che offendere un commensale. Essendo stato il bersaglio della sua satira scritta, ero ancora piuttosto irritato quando lo incontrai dopo qualche mese a un pranzo offerto a Londra da “Private Eye”. Ma alla fine del pasto mi stavo praticamente scusando per aver scritto il libro che aveva provocato la sua parodia.
E in seguito ho condiviso con lui molte serate e molte bottiglie di vino. Alle cene, era sempre cortese, benevolo e vago sul vino del padrone di casa. Era molto più specifico, e pungente, in Waugh on Wine, che noi amanti della lingua e dell’uva dovremmo tenere sul comodino, affinché ci ricordi che il vino è un tema destinato a ispirare passione e diatribe.