LO SCIENZIATO PAZZO DELLA JADOT

La tensione della terra – riesci a sentirla?” Mi chiede Jacques Lardière, con uno sguardo interrogativo di un’intensità che quasi mi solleva a mezz’aria. Siamo al centro di Closde-Malte, un vigneto a forma d’anfiteatro a Santenay. “Si sente pulsare il suolo,” dice Lardière, muovendo in su e in giù la testa con il suo viluppo di ciocche d’argento e battendosi ritmicamente le mani sul petto. In effetti spingendo lo sguardo sulla valle al di là della chiesa romanica, crogiolandomi nel sole di maggio e ascoltando le api, sento qualcosa qui; ma potrebbe essere il magnetismo della focosa personalità di Lardière, l’enologo dell’azienda vitivinicola Louis Jadot.

“I minerali,” dice indicando il terreno con una mano e il cielo con l’altra, “devono essere collegati alla luce.” Non fa una piega, almeno a livello metaforico. “Stiamo cercando,” dice, “l’inconscio della terra.” Non capisco tutte le dichiarazioni di Lardière, ma credo sia un poeta migliore di molti vincitori del Bollingen Prize, e un enologo geniale.

La maison Louis Jadot è una delle più antiche e rispettate della Borgogna, un faro di incessante qualità in una regione notoriamente inaffidabile. Jadot è un domaine che alla produzione e all’imbottigliamento dei vini delle proprie tenute affianca l’attività di négoce, vinificando uve acquistate da altri coltivatori. Dal 1985 l’azienda è di proprietà del suo importatore americano, Kobrand, e quasi la metà del vino, fortunatamente per noi, arriva qui negli Stati Uniti. Gli snob del Borgogna sottovalutano a volte i vini della Jadot per la relativa vastità della produzione dell’azienda, ma alcuni di noi appassionati ritengono che siano tra i migliori e i più longevi della regione. Rappresentano inoltre un ottimo affare a tutti i livelli, dall’umile Beaujolais al celebrato Musigny. Se Domaine Romanée-Conti è la Ferrari del Borgogna, Jadot ne è la Mercedes.

Trovo significativo il fatto che tra tutti i vigneti in cui avrebbe potuto portarmi, Lardière abbia cominciato dal relativamente oscuro Santenay. “Dobbiamo avere lo stesso approccio per i vini minori e per i grand cru,” dice. E più tardi, quasi a voler dimostrare la sua tesi, a pranzo nel cinquecentesco Counvent des Jacobins nel centro di Beaune ha stappato un Gevrey-Chambertin del 1971, un cosiddetto village, terzo gradino nella gerarchia del Borgogna al di sotto del grand cru e del premier cru. Anche se il senso comune avrebbe lasciato supporre che un vino relativamente modesto come questo (soprattutto nella bottiglia da 37,5 cl che aveva stappato) sarebbe stato ormai quasi imbevibile, il village non si è rivelato solo vivace e carnoso, ma anche incredibilmente ricco di sfumature.

Ciò che Lardière ama – ed è questa la meraviglia del Borgogna – sono le differenze tra un pezzo di terra e quello adiacente. Mentre ci dirigiamo in auto a nord di Santenay attraverso Chassagne-Montrachet, Puligny-Montrachet e Meursault, mi addita i diversi vigneti: “Quello è Combettes... quello è Charmes... ça c’est Genevrières.” L’occhio non allenato non riesce a scorgere confini logici, ed è stato un millennio di osservazione empirica e degustazione a tracciarli. Più tardi, nelle cantine Jadot, Lardière mette in evidenza le indiscutibili distinzioni mentre assaggiamo i vini del 2004 dalla botte. Probabilmente non c’è cantina della Borgogna dove la religione del terroir possa venir illustrata con altrettanta chiarezza. Lo Chassagne-Montrachet del 2004 è molto più morbido e pastoso del nervoso e minerale Puligny, e le differenze si fanno sempre più interessanti man mano che risaliamo la gerarchia. “Questa è libertà, questa è individualità,” grida Lardière, agitando le braccia e spruzzandomi addosso un residuo di Meursault Charmes. “L’uva scompare. Non è Pinot, non è Chardonnay – ciò che conta è l’espressione del luogo.” (Lui si sforza di togliersi di mezzo usando le tecniche meno invasive possibili.) Tenendo conto del fatto che ha cominciato ad assaggiare alle sette di questa mattina, il suo entusiasmo, e la precisione del suo palato, sono straordinari.

Lardière può sembrare alternativamente – e persino allo stesso tempo – uno scienziato pazzo o un poeta sovraeccitato; il suo alter ego alla Jadot è Pierre-Henri Gagey, che ha preso il posto del padre André e dà l’impressione del cortese e raffinato diplomatico francese, pur essendo a sua volta un vero credente. “La Borgogna è un luogo di grande spiritualità,” mi dice davanti a un bicchiere di melato e minerale Chevalier-Montrachet del ’76 nella sua casa di Beaune. “Qui le viti di Pinot Noir crescevano selvatiche quando i monaci arrivarono nell’undicesimo secolo. La chiave del Borgogna è il mutare del Pinot Noir nei diversi ambienti.”

Gli intenditori sono quasi unanimi nella lode dei bianchi di fascia alta della Jadot; negli ultimi anni, man mano che assaggiavo i rossi più vecchi, sono diventato un appassionato. Sono più scuri e lenti a fiorire di alcuni dei loro pari per via della lunga permanenza nei tini e per l’alta temperatura di fermentazione, ma evolvono e migliorano per decenni. Lo Chambertin del ’59 che Gagey versò a cena era ancora colmo di dolce frutta rossa e di una complessità incantatrice, che in qualche modo mi ricordò un sonetto di Valéry. (Gagey è un bibliofilo e avevamo parlato dei nostri autori preferiti.) “È un vino che dona grandi emozioni,” dice Gagey – e non è affatto una cattiva descrizione. L’ha stappato in parte per fornire un contesto all’interno del quale immaginare il futuro sviluppo della vendemmia 2003, dal momento che il ’59 fu un’annata similmente calda e secca.

Gli Jadot del 2003 sono stati messi in commercio l’autunno passato – più tardi della maggior parte dei vini delle proprietà vicine – e non posso consigliarli abbastanza caldamente, soprattutto i rossi. L’estate fu la più torrida che si ricordi, e mentre molti coltivatori presi dal panico vendemmiarono addirittura il sedici agosto, quando le uve erano tecnicamente mature in termini di contenuto di zuccheri ma carenti quanto allo sviluppo aromatico, Lardière e compagni attesero fino al ventotto agosto e ottennero fragranze straordinariamente mature e complesse. Per quanto notevoli fossero gli Jadot del 2002 sotto tutti i punti di vista, alcuni di quelli del 2003 saranno ancora migliori e più generosi in gioventù; e invidio già i pochi fortunati che berranno lo Chambertin Clos-de-Bèze del 2003 tra quaranta o cinquanta anni.