IL MIO BIANCO PREFERITO
Detesto che mi chiedano di scegliere “il mio preferito”, si tratti di libri, film o canzoni. Certo, adoro Norwegian Wood, ma la amo forse più di Angie o Alison? Come posso decidermi tra I sette samurai di Kurosawa e 8½ di Fellini? Credo però di poter affermare con una certa sicurezza che il Condrieu è il mio vino bianco preferito. Forse non dovrei dirvelo, perché non ne viene prodotto molto e mai ne verrà: gli erti fianchi dei colli sopra il Rodano su cui cresce sono assai difficili da lavorare, la zona di origine è estremamente ristretta e in nessun altro luogo al mondo, neppure sui pendii simili un chilometro a nord o a sud di Condrieu, le uve Viognier producono un succo tanto sublime. I vitigni Viognier si sono dimostrati piuttosto promettenti in certe zone della California e altrove, ma bere questi non-Condrieu è un po’ come guardare I magnifici sette; un’esperienza magari divertente, ma che fa sentir nostalgia dell’originale.
Potreste chiedermi perché lo ami tanto. Spiegare i piaceri del Condrieu è come tentare di parafrasare un haiku. Però posso dirvi che lo amo perché la pesca bianca è il mio frutto preferito e il Condrieu spesso sa di pesche bianche, anche se a volte tende all’albicocca. Mi piace la sua consistenza, carnosa, viscosa e rotonda in bocca. Mi piace il bouquet floreale, che spesso ricorda il caprifoglio. Alcuni assaggiatori inglesi lo paragonano ai fiori di maggio, ma per me, anti-orticoltore che sono, fa semplicemente pensare a certi giardini in primavera. Mi piace perché evoca i quadri tahitiani di Gauguin. E infine, bizzarramente, mi piace perché difetta di due qualità che i grandi vini dovrebbero in teoria possedere, ossia l’acidità e la capacità di migliorare con il tempo. Il Riesling, con il suo alto grado di acidità, è molto più adatto ad accompagnare i cibi, e il Borgogna bianco di Meursault o Puligny è molto più longevo e guadagnerà in complessità con l’andare del tempo. E allora? L’amore non si basa su considerazioni di ordine pratico. Il Condrieu è un vino per romantici.
Come la Côte-Rôtie, la denominazione di vino rosso con cui confina a nord, alla fine della Seconda guerra mondiale Condrieu era quasi moribonda, i suoi ripidi vigneti in gran parte abbandonati e il loro esotico vino a un passo dall’estinzione, finché Georges Vernay prese il controllo dei terreni di famiglia nei primi anni cinquanta e divenne presidente del consorzio della denominazione, incoraggiando altri proprietari a ripiantare i vecchi vitigni e facendo al tempo stesso pressioni per rendere più severe le regolamentazioni. All’epoca sulle colline di Condrieu restavano meno di otto ettari di Viognier. Nel 1988 i confini della denominazione furono ristretti agli erti fianchi delle colline. Quando Christine, la figlia di Vernay, assunse il controllo della proprietà, il Condrieu era tornato a essere l’oggetto di un devoto culto di edonisti molto esigenti.
Il merito di aver resuscitato il grande Condrieu va anche alla famiglia Guigal, della vicina Ampuis. Sebbene più nota per i suoi Côte-Rôtie, l’azienda fondata da Étienne Guigal nel 1946 e portata all’eccellenza dal figlio Marcel, che pare sia nato con un basco sulla testa e una sonda in mano, è adesso la maggior produttrice di Condrieu. Fu una bottiglia di Guigal che accompagnava l’eglefino affumicato a casa dello scrittore Julian Barnes a far nascere la mia storia d’amore con il Condrieu una ventina d’anni fa. Oltre alla produzione normale, Guigal offre una cuvée di lusso, La Doriane, una bottiglia di vino ricco e decadente che si sposa perfettamente con il foie gras. Certe etichette sono per me curiosamente rappresentative, inestricabilmente legate alla memoria sensoriale del vino: l’esotismo selvaggiamente floreale di La Doriane viene perfettamente evocato alla mia mente dall’etichetta, con il dettagliato e coloratissimo intrico della sua grafica floreale simil art nouveau, basata su un quadro del pittore italiano Moretti.
Un altro aspirante al titolo di Condrieu più sontuoso è il Coteau de Chéry di André Perret, ottenuto dalle uve di un unico vigneto sulle colline di Condrieu. Il modesto e affabile Perret produce vino solo dal 1983, ma le viti di questa cuvée superiore hanno più di sessant’anni. Yves Cuilleron, vicino di Perret, produce quattro diversi Condrieu, che coprono l’intera gamma che dal delicato arriva al decadente. Il suo La Petite Côte è un vino più leggero che viene fatto maturare alla vecchia maniera in annose botti, mentre lo scatenato Vertige, che suggerisce di abbinare al pesce in salse robuste (è fantastico anche con molti piatti cantonesi) viene sottoposto al trattamento completo nel rovere nuovo. Cuilleron produce anche un Condrieu da vendemmia tardiva chiamato Les Ayguets, tutto miele e nocciole, che è sostanzialmente un vino da dessert, anche se personalmente lo preferisco da solo o con formaggi forti.
Nel maggio di quest’anno, dopo una degustazione mattutina nella sua nuova cantina, il quarantenne Cuilleron mi ha portato a vedere uno dei suoi vigneti, Les Chaillets, un ripido pendio rivolto a sud-est e affacciato sul Rodano color acciaio, che scintillava di papaveri di un arancione acceso. Una serie di antiche terrazze di pietra sembravano faticare a contenere il terreno sabbioso e granitico del fianco della collina. Alle dieci e mezza il sole stava già cominciando a far breccia nel freddo mattutino. “Dicono che siano stati i romani a costruire queste terrazze,” mi spiegò Cuilleron. “È possibile,” risposi; ma dubito che i romani abbiano mai assaggiato qualcosa con un aroma di miele e pesca così intenso e delicato come il Les Chaillets Cuilleron del 2004, il cui ricordo era ancora vivido un’ora dopo averlo degustato. E forse non l’avrebbero neppure apprezzato fino in fondo, dato che il Condrieu è un vino per innamorati, non per guerrieri.