IL ROSSO DI CASA MONTECCHI E CAPULETI

Quando l’über-ristoratore Danny Meyer ebbe come ospite l’idolo della sua infanzia, il lanciatore destro dei St. Louis Cardinals Bob Gibson, rifletté a lungo e attentamente su quale vino servire al campione, che sapeva essere un serio enofilo. Gibson era arrivato all’appartamento di Gramercy Park di Meyer con una bottiglia di Zinfandel dello Haine Vineyard di Turley Cellars, una sorta di grosso Hummer viola dei vini, cui è sempre difficile trovare un degno successore. Meyer, i cui ristoranti, per esempio Gramercy Tavern e Union Square Cafe, sono noti per avere alcune tra le migliori carte dei vini del paese, si decise infine per un Recioto della Valpolicella di Quintarelli del 1990. Credo che Gibson l’abbia apprezzato. So per certo di essere andato in estasi quando Meyer ha portato la seconda delle sue tre amate bottiglie a casa mia in occasione di una cena recente; probabilmente è stato il vino migliore che abbia bevuto quest’anno.

Va bene, mi pare quasi di vedere qualcuno di voi che se la ride sotto i baffi. È vero che in questo paese il Valpolicella ha più o meno lo stesso problema d’immagine del Soave, ma non è una coincidenza, dato che le due zone sono adiacenti ed è stato lo stesso colosso multinazionale a spedire enormi quantità di scialbi Valpolicella e Soave da questa parte dell’Atlantico a partire dagli anni settanta. Per alcuni di noi, il Valpolicella è una parte della nostra storia che preferiremmo dimenticare, un nome associato a pallidi ricordi di appuntamenti imbarazzanti – come certe pettinature dell’era dei Foreigner e di Leo Sayer. Ma chiunque abbia assaggiato di recente un Valpolicella di Quintarelli o dal Forno si è fatto un’idea diversa.

Quintarelli e dal Forno sono il Platone e l’Aristotele del Valpolicella, e la domanda da porsi è se sono dei personaggi bizzarri che il caso vuole facciano un gran vino oppure dei pionieri in una regione che sta tentando di mettersi al passo con loro. Sebbene già il padre e il nonno producessero del Valpolicella sulla piccola tenuta di famiglia, Romano dal Forno afferma di non aver saputo praticamente nulla di vini prima di conoscere Giuseppe Quintarelli, l’affabile mentore che viveva a un paio di valli di distanza nel paesino di Negrar, nel 1981. “In sostanza mi ha adottato,” mi raccontò il tarchiato e appassionato dal Forno quando andai a trovarlo l’anno scorso. Dal Forno parla del vino come se fosse una questione di vita o di morte: “Ho tentato di assimilare tutto.” Si direbbe che ci sia riuscito. I suoi Valpolicella sono più focosi di gran parte degli Amarone, e i suoi Amarone andrebbero stappati soltanto in presenza di divinità e di formaggi puzzolenti.

La regione del Valpolicella abbraccia una serie di pittoreschi crinali di cui si è spesso notata la somiglianza con le dita di una mano aperta. Qui l’uva a bacca rossa dominante è la Corvina, che si spartisce i fianchi delle colline con i ciliegi. Il Valpolicella è il rosso della casa a Verona, l’antica città di Romeo e Giulietta, che negli ultimi tempi è diventata scenario di Vinitaly, gigantesca fiera vinicola che ogni marzo riempie alberghi e strade. Lo stand a due piani dell’azienda Allegrini, situata nella Valpolicella, è la cosa più grande della fiera in senso letterale e figurato. Ma proprio mentre inizia a essere assai richiesto, il Valpolicella è diventato anche un po’ complicato. Cominciamo a sentire l’espressione “super-Valpolicella,” e alcuni tra i vini più interessanti della regione non recano neppure la parola che comincia per V sull’etichetta. Il sopracitato Recioto della Valpolicella ne è una versione dolce, fatta con uve sottoposte a parziale appassimento. E ad alcuni Valpolicella secchi viene messo il turbo con vinacce di uve appassite dalle quali si è ricavato il Recioto, un metodo noto come ripasso. Capito?

Il modo migliore per comprendere i vini della Valpolicella consiste probabilmente nel pensare a un continuum che va dal più leggero al più ricco. All’estremità più leggera della gamma ci sono i vini etichettati semplicemente Valpolicella, come il famigerato Bolla (che sta migliorando con la nuova proprietà americana). All’altro capo ci sono i Recioto della Valpolicella, prodotti da uve lasciate appassire per tre o quattro mesi dopo la vendemmia in modo da ottenere una maggior concentrazione di zuccheri prima della fermentazione, e l’Amarone, il suo cugino secco, prodotto con la stessa tecnica, se non che le uve vengono fatte fermentare finché gli zuccheri non spariscono.

L’Amarone – o, per chiamarlo con nome e cognome, l’Amarone della Valpolicella – è stato il primo vino della denominazione Valpolicella a conquistarsi una stima universale. Ma negli ultimi anni anche la qualità e la reputazione del normale Valpolicella sono cresciute. “Una volta i vini puzzavano,” dice Sergio Esposito di Italian Wine Merchants di New York. “Letteralmente – puzzavano di piedi.” Esposito sostiene che come negli anni novanta i produttori di Barolo cominciarono a prestare attenzione alla qualità della loro Barbera e del loro Dolcetto, così ora i migliori produttori di Amarone stanno accrescendo la qualità dei loro rossi secchi riducendo la resa e affinando il lavoro in cantina. Allegrini ha abbandonato del tutto la denominazione, offrendo degli ottimi vini basati su uva Corvina con i nomi La Grola, Palazzo della Torre, e La Poja.

I Valpolicella cui è stato messo il turbo con il metodo del ripasso (solitamente indicato sull’etichetta) possono ricordare Amaroni giovani, con aromi di goudron, cuoio, datteri e fichi, e tener testa a una costata alla griglia o a una costoletta d’agnello. I Recioto costituiscono un fantastico accompagnamento per un piatto di formaggi. Ma non sottovalutate i semplici piaceri di un buon Valpolicella Superiore – con una gradazione minima obbligatoria di dodici gradi e almeno un anno di invecchiamento – di produttori come Brigaldara, Nicolis, Tedeschi e Zenato, per un prezzo che si aggira solitamente intorno ai quindici dollari. Uno di questi potrebbe diventare il vostro nuovo vino della casa.