“L’Amarone è un vino estremo,” avverte Romano dal Forno, fermandosi mentre scendiamo la scala a chiocciola della sua villa verso le gelide profondità della cantina, dove all’improvviso mi rendo conto con stupore di quanto assomigli a una versione di James Gandolfini segnata dal tempo. “È un vino emozionante,” continua. Per un attimo, mi domando se stia alludendo alla possibilità che io non sia all’altezza di ciò che mi attende. Dopo aver assaggiato diverse annate dalla botte, sono in effetti un po’ emozionato – entusiasmato e al tempo stesso rattristato dalla consapevolezza che, essendo così raro e costoso, non mi capiterà molte altre volte di gustare l’estremo succo di dal Forno.
L’Amarone è un’anomalia: un vino secco che imita la dolcezza; una creazione relativamente moderna che pare profondamente primitiva e rustica, come un qualche ricco nettare pagano o il sangue di una bestia mitologica. Sebbene gli italiani considerino il cibo e il vino inseparabili, l’Amarone sopraffà la maggior parte dei piatti. “Con l’Amarone, non pensi al cibo,” dice dal Forno. “Magari a un po’ di formaggio.”
Dal Forno è un estremistico fautore di questo rosso estremo, fatto da uve appassite – soprattutto Corvina – sulle colline della Valpolicella vicino a Verona. I suoi Amaroni, prodotti solo nelle migliori vendemmie, arrivano a superare i quindici gradi e fanno apparire gran parte dei Cabernet di culto vini per persone delicate. Nell’ultimo decennio, grazie a Robert Parker, i vini di dal Forno sono diventati oggetto di una venerazione pari a quella riservata al suo mentore, Giuseppe Quintarelli, con il quale ha lavorato prima di assumere la guida dei vigneti di suo padre.
L’azienda di Quintarelli è adagiata sulle colline della zona del Valpolicella Classico, in fondo a un lungo viale d’accesso fiancheggiato da ulivi meticolosamente potati – una terra sacra per il fanatico del vino. Sporgendo il capo fuori dalla finestra in risposta alle mie ripetute scampanellate, il santo locale sfoggia un gran tovagliolo sulla giacca verde spigata e una macchia di sugo al pomodoro sul mento. Affabile settantenne calvo, Quintarelli non sembra ricordarsi affatto del nostro appuntamento, ma accetta allegramente di accompagnarmi a fare un giro dopo pranzo e, presumibilmente, alla fine del gioco a premi televisivo che schiamazza in sottofondo.
Nella cantina di Quintarelli, stipata di vecchie e gigantesche botti slovene, regna una gradevole atmosfera medievale. Non vedo traccia di vasche d’acciaio. Né delle barrique nuove di rovere che dominano l’immacolata cantina di dal Forno. Anche se l’aria di famiglia è inconfondibile, gli Amarone di Quintarelli sono più terrosi di quelli di dal Forno, e ancor più complessi, evocativi di datteri e fichi, ciliegia agrodolce e liquirizia nera. Per quanto mi riguarda, sono la massima espressione di questo concetto estremo. La mia visita si sovrappone a quella di due giornalisti enologici francesi, la cui iniziale irritazione per doversi spartire la cantina con un americano viene infine soverchiata dal piacere per il vino, e riconoscono che nella belle France non c’è niente di simile.
Il cortese amante del tweed Stefano Cesari, proprietario della vicina tenuta Brigaldara, mi svela il vero segreto dell’Amarone, conducendomi su una rampa di scale fino a una soffitta nel fienile dietro la sua villa del quattordicesimo secolo, dove sono sospese uno sull’altro migliaia di cassette di legno. Se la maggior parte dei vini vengono fatti in cantina, l’Amarone si fa in soffitta.
Ogni autunno, le uve di prima qualità della vendemmia vengono stese ad appassire per mesi. Questo procedimento, che risale quantomeno al tempo di Plinio, che lo raccomandava, concentra gli zuccheri – e spesso provoca la comparsa della botrite, muffa nobile responsabile del sapore dei grandi bianchi di Sauternes. (La botrite non è accolta a braccia aperte da tutti i produttori; alcuni di loro, per esempio Allegrini, hanno installato camere d’appassimento a umidità controllata per impedirne la formazione.) L’appassimento fa all’uva ciò che un turbocompressore fa a un motore V8. Tradizionalmente, ne derivava un vino dolce, perché le uve smettevano di fermentare prima che gli zuccheri si consumassero. Questo vino rosso dolce, il Recioto della Valpolicella, viene prodotto ancora oggi. Cesari mi racconta che la prima botte di Amarone nacque per errore, quando fu lasciata fermentare fino a diventare completamente secca, nella prima parte del Novecento (altre fonti parlano di un’origine molto più antica). Questo stile divenne noto come Recioto amaro e fu infine prodotto in quantità commerciali negli anni cinquanta.
Proprio come le sue oscure origini, l’Amarone resta un vino misterioso, quasi schizofrenico. Come osservano Bastianich e Lynch in Vino Italiano: “Si comporta come un vino dolce senza essere tecnicamente dolce.” Il profumo di frutta secca e la consistenza sciropposa fanno pensare al Porto; tende a ingannare il palato apparendo dolce all’inizio per rivelarsi infine secco, persino leggermente amaro, come cioccolato senza zucchero.
Quando sono in vena di Amarone, cerco spesso quello di Allegrini, una delle aziende più innovative e stimolanti della Valpolicella, o di Brigaldara, che eccelse non solo nella straordinaria vendemmia ’97, ma anche in annate meno sontuose come il ’98 e il ’99. Bussola, Masi e Tedeschi producono possenti Amaroni seguendo il modello dal Forno, mentre Accordini, Bertani, Bolla (sì, proprio quel Bolla) e Speri ne fanno versioni un po’ più leggere e avvicinabili.
Per quanto complesso, mi piace pensare all’Amarone come al vino perfetto per coloro che diffidano della cornucopia di analogie che i critici di vini si inventano. Spesso resto anche io perplesso nel leggere recensioni di vini piene di mirtilli e fiori di biancospino. Ma datemi un calice di Amarone e divento uno di loro! Fammi spazio, Bob Parker! Anche il principiante della degustazione si può sentire un professionista nell’identificare senza fatica gli intensi sapori e aromi del vino rosso più estremo del pianeta. Ciliegie! Datteri! Fichi! Liquirizia! Cuoio! Caffè! Cioccolato amaro! Tabacco! Eccetera eccetera.