Una volta immaginai che le uve di certo Champagne di lusso venissero raccolte un chicco alla volta da vergini vestali, senza sospettare che un giorno avrei assistito con i miei occhi a una stravagante visione molto simile a questa. Un mattino di marzo, arrivando all’azienda vitivinicola Casa Lapostolle nella valle di Colchagua in Cile, mi imbattei in circa novanta donne schierate su entrambi i lati di uno stretto tavolo lungo più o meno quanto un campo da tennis, intente a staccare uno per uno i chicchi dai grappoli di Cabernet umidi di rugiada colti quel mattino, mettendo da parte i migliori e scartando quelli danneggiati o acerbi. Gli enologi di fascia alta di tutto il mondo impiegano tavoli di cernita e lavoro manuale per selezionare i grappoli, ma non ho mai visto fare questa operazione letteralmente un acino alla volta. I chicchi in questione erano destinati al Clos Apalta, uno dei vini della new wave di rossi cileni di lusso. Questo meticoloso processo di cernita fu l’ulteriore prova, caso mai ne avessi avuto bisogno, del fatto che in Cile non ci si limitava più al semplice vinello andante.
La Valle Centrale, posta nel mezzo di questo paese alto e smilzo, e intersecata da fiumi e valli minori, è un paradiso per le uve. Il clima, mitigato dalle Ande a est e dal Pacifico a ovest, viene spesso descritto come un incrocio tra quelli della Napa Valley e della regione di Bordeaux. Le viti giunsero con i missionari che seguirono i conquistatori, e l’importazione di vitigni (e vinificatori) dalla Francia alla metà del diciannovesimo secolo creò un inestimabile risorsa per la viticultura; ciò che in Cile non arrivò mai è la fillossera, la piaga che devastò gran parte dei vigneti del mondo. Il materiale grezzo era a disposizione, anche se rimase inutilizzato fino alla fine dell’era Pinochet, quando le aziende vitivinicole volte al consumo locale presero a guardare al mercato internazionale e l’interesse straniero iniziò a portare un flusso di denaro verso la Valle Centrale.
Alexandra Marnier-Lapostolle, il cui bisnonno inventò il Grand Marnier, compì le prime ricognizioni in Cile all’inizio degli anni novanta e poi fece venire Michel Rolland, il rinomato e ubiquo enologo. Nel 1994 fondò Casa Lapostolle insieme al marito, Cyril de Bournet, e si assicurò i servigi di Rolland come consulente. Seguendola in un polveroso vigneto mentre assaggia uve e parla di portinnesti pre-fillossera, pensi che Alexandra Lapostolle sia una di quelle donne chic, sofisticate e di una bellezza sconvolgente che si vedono su rue du Faubourg Saint-Honoré. Sembra appropriato che descriva il Clos Apalta come il suo vino di haute couture. (Lapostolle produce anche due linee nella fascia compresa tra i dieci e i venticinque dollari.) Le uve, scelte con tanta tenerezza nell’azienda, provengono da un vigneto vecchio di quasi cent’anni di nodose viti Cabernet, Merlot e Carmenère nella valle di Colchagua, cinta da un ferro di cavallo di cime incappucciate di neve.
Il Carmenère è l’arma segreta del Cile, un vitigno un tempo diffuso ampiamente nella regione di Bordeaux che nel 1991 fu riscoperto in Cile, dove per anni era stato scambiato per Merlot. Come il Cabernet Franc, il Carmenère può essere un po’ vegetale e rustico, ma quando matura a dovere diventa setoso e sviluppa un pungente aroma di lampone. Se potrà trasformarsi in una star solista dell’industria vinicola cilena resta da vedere, ma lo spettacolare Clos Apalta, che contiene fino al quaranta percento di Carmenère, attesta il suo enorme potenziale come vitigno da uvaggio. Il mostruoso Apalta del 2001 è già una leggenda nel mondo del vino; quello del 2002 è un filo meno potente ma altrettanto complesso, un vino che potrebbe venir preso per una miscela di un Cabernet di culto della Napa Valley e un Pauillac premier cru.
Seña, una joint venture tra Robert Mondavi della Napa Valley ed Eduardo Chadwick, presidente della veneranda azienda vitivinicola cilena Errázuriz, è stato il primo dei rossi cileni “superpremium” (ossia dai cinquanta dollari in su), ed è anch’esso un assemblaggio di Cabernet, Merlot e Carmenère. L’annata 2001, in stile Nuovo Mondo, è uno dei migliori rampolli che questo matrimonio abbia finora dato alla luce. Se un’azienda vitivinicola cilena dovesse rivendicare un pedigree più nobile delle altre, sarebbe l’Almavia, figlia illegittima di Baron Philippe de Rothschild di Bordeaux (partner di Mondavi nella creazione di Opus One) e della cilena Concha y Toro, la prima azienda vitivinicola a essere quotata in borsa a New York. Il monumentale Almaviva del 2001, creato da Patrick Léon di Mouton-Rothschild ed Enrique Tirado di Concha y Toro, ricorda molto da vicino un buon Pauillac – un assemblaggio strutturato (leggi: lento a evolversi), complesso e terroso di circa ottanta percento di Cabernet Sauvignon e venti percento di Carmenère. Le uve vengono da un vigneto piantato trent’anni fa a poca distanza da Santiago, nella valle di Maipo, la regione tradizionale del Cabernet cileno; attraversano la loro miracolosa transustanziazione in una bella cattedrale lignea del vino progettata dall’architetto cileno Martín Hurtado Covarrubias, noto soprattutto per le sue chiese.
L’enfant prodige delle aziende vitivinicole nazionali del Cile è senza dubbio Montes, fondata nel 1988. L’Alpha “M” Montes è il fiore all’occhiello della tenuta, un rosso ricco e possente ottenuto da viti relativamente giovani piantate sulle colline sopra la valle di Apalta a Colchagua. Se dovessi indicare la più promettente tra le nuove aziende vitivinicole cilene sceglierei Haras de Pique, nella valle di Maipo, attualmente nota soprattutto per la sua scuderia di allevamento di purosangue. Fondata nel 1991 dall’imprenditore-cavallerizzo Eduardo Matte, al momento produce un Cabernet con l’appropriato nome di Elegance e ha recentemente annunciato un vino da singolo vigneto che nascerà dalla collaborazione con la famiglia italiana Antinori.
Nella maggioranza dei casi, i vini di questa nuova ondata di cuvée di lusso cilene vengono per il momento prodotti in piccole quantità, ma vale la pena cercarli, e rappresentano degli ottimi auspici per il futuro del Cile come fonte di rossi di prima scelta. Settanta o ottanta dollari possono sembrare una grossa cifra per un vino cileno – finché non si paragonano i suoi esempi migliori con i rossi del Nuovo Mondo nella stessa fascia di prezzo.