INTRODUZIONE

Si può dire che sia la mia carriera di scrittore sia quella di giornalista enologico abbiano avuto le loro umili origini al Westcott Cordial Shop di Syracuse, New York. Durante gli studi con Raymond Carver e Tobias Wolff al Graduate Writing Program della Syracuse University, stavo lavorando dietro il bancone di questa sbronzoteca, situata in un quartiere periferico a tre o quattro chilometri dal campus, quando seppi che la Random House aveva accettato di pubblicare il mio primo romanzo. E fu lì, tra una revisione e un’occasionale rapina a mano armata, che lessi da cima a fondo la polverosa collezione di libri sul vino del proprietario. Una parte significativa della nostra attività consisteva nella vendita di succo d’uva irrobustito dall’alcol che sostentava gli etilisti incalliti e a corto di fondi: Night Train, Wild Irish Rose, MD 20/20. Vendevamo però anche qualche vino vero – ossia succo d’uva effettivamente sottoposto a fermentazione – e tra i dipendenti vigeva la tradizione di portarsi a casa una bottiglia ogni sera. Ricordo che cominciai con un Cabernet jugoslavo e risalii la gerarchia fino al Freixenet, uno spumante spagnolo che all’epoca si vendeva a cinque dollari e novantacinque a bottiglia. Il proprietario teneva anche una piccola scorta di Bordeaux e Borgogna su uno scaffale accanto al registratore di cassa, bottiglie polverose che da quando lavoravo lì non erano mai state toccate. Il giorno della notizia che il mio romanzo sarebbe stato pubblicato ne comprai una, uno Smith-Haute-Lafitte del 1978, e anche se a voler essere obiettivi non fu certo il miglior Bordeaux che abbia bevuto, non credo che la valutazione di un vino possa essere una faccenda solo obiettiva: negli anni successivi, ho tratto un piacere molto inferiore da bottiglie di Bordeaux ben più costose e considerate.

Per quanto cattivi potessero essere alcuni dei vini che prendevo dagli scaffali del negozio, rappresentavano probabilmente un miglioramento, in senso estetico e tossicologico, rispetto alla roba più tosta che consumavo regolarmente nei miei primi anni a Manhattan. L’enofilia era un modo per incanalare l’impulso edonistico e, almeno fino a un certo punto, per raffinarlo e intellettualizzarlo. Il vino è una sostanza intossicante, e non dovremmo fingere che non lo sia, anche se leggendo la maggior parte di quanto viene scritto sulle riviste a esso dedicate potremmo non venire mai a saperlo. E ammettiamolo: se non lo fosse, non ne saremmo attratti allo stesso modo. Può tuttavia procurare un piacere tanto intellettuale quanto sensuale; è un argomento inesauribile, un viluppo di questioni che ci conduce, se decidiamo di approfondirlo, nei regni della geologia, della botanica, della meteorologia, della storia, dell’estetica e della letteratura. Nella valutazione del vino l’ideale è un equilibrio tra il consumo e il piacere da una parte e la contemplazione e l’analisi dall’altra.

La passione per l’uva mi ha portato in alcuni tra i luoghi più belli del mondo – Alsazia, Toscana, Provenza, Capo di Buona Speranza e Willamette Valley, per fare solo qualche esempio – e mi ha messo in contatto con alcuni tra i più stimolanti e amabili eccentrici del nostro tempo. Il popolo del vino è solitamente socievole, generoso e appassionato. Il culto di Bacco non annovera molte personalità anali ritentive tra i suoi adepti. Nel corso di una cena con Angelo Gaja in una trattoria di Barbaresco ho imparato molto sulla viticoltura, ma ciò che ricordo più vividamente è il racconto di come distrusse il televisore con una mazza dopo aver stabilito che i figli ci passavano troppo tempo davanti. E non scorderò mai Joan Dillon dello Château Haut-Brion che parlava delle baldorie sullo yacht del presidente Kennedy, o di Allen Ginsberg che si spogliava negli uffici della “Paris Review”. L’amore per il vino è il legame fraterno che ci unisce, il lubrificante che agevola la conversazione, ma è anche un rapporto poligamo che incoraggia ed esalta le altre nostre passioni. Porta a nuovi argomenti e ci riporta al mondo. Ci eleva e ci libera dalle circostanze prosaiche della vita quotidiana, ci induce alla contemplazione per restituirci infine a quello stesso mondo rigenerati, arricchiti da una migliore comprensione e un maggiore apprezzamento di esso.

Il succo d’uva fermentato è un catalizzatore per la contemplazione e la meditazione ben più potente di un coca e rum, o di un grammo di coca. È una bevanda liturgica, un liquido sacro e simbolico. “Fate questo in memoria di me,” disse Gesù sollevando un calice di vino; e il vino può effettivamente fungere da dispositivo mnemonico, da catalizzatore di ricordi. Questo non dovrebbe tuttavia impedirci di gustarlo senza rifletterci troppo. Il vino è una cosa seria o frivola, a seconda dei nostri desideri. Come il sesso, è stato avvolto fin troppo spesso in un’aura di mistero, imprigionato nel tabù, offuscato da ciance tecniche e aggredito dai puritani, anche se il suo godimento è, o dovrebbe essere, semplice, accessibile e divertente. Michel Chapoutier, produttore di grande serietà e successo, una volta mi ordinò di smetterla di riflettere così profondamente su un bicchiere di vino che stavo odorando. “Se pensi troppo lo uccidi,” disse. Eravamo seduti sulla terrazza della sua casa adagiata su un crinale che domina il Rodano, appena a sud di Tain l’Hermitage, intenti a digerire un pranzo spettacolare con l’aiuto del suo vin de paille Hermitage del ’99. “Il cervello è l’assassino del piacere,” disse prima di concludere con quel genere di analogia politicamente scorretta che i produttori di vino francesi sembrano adorare: “Non c’è bisogno di essere un ginecologo per fare l’amore.” In Europa, dove il vino è da millenni parte della vita quotidiana, gli enofili americani vengono a volte visti come dei monomaniaci – neoconvertiti fanatici, e in qualche modo limitati, di una fede liberale e panteistica. Gli americani amanti del vino devono allargare le proprie vedute e rilassarsi, guardando al vino semplicemente come a uno dei tanti aspetti di una vita ben vissuta.


Una decina d’anni dopo il periodo in cui lavorai al Westcott Cordial Shop la mia amica Dominique Browning, che era stata appena nominata direttrice di “House&Garden”, mi chiese di tenere una rubrica per la rivista. Declinai, convinto di non possedere neppure lontanamente il grado di competenza necessario a ergermi a esperto di vini. D’altra parte, passavo fin troppo tempo a leggere libri sul vino, cataloghi di vini e rapporti metereologici su Bordeaux, a volte annoiavo i miei ospiti a cena con encomi entusiastici di quello che stavo versando loro e di solito bevevo più di quanto il mio dottore avrebbe approvato. Ero noto per saltare su un aereo per Londra non appena il mio amico Julian Barnes, che dispone di una cantina di livello mondiale e non ha paura di stappare i suoi tesori, mi invitava a cena. Ma non avevo mai frequentato una lezione, partecipato a una degustazione o sputato in un secchiello, e non avevo la più pallida idea di cosa si intendesse con espressioni tipo “fermentazione malolattica” o “acidità volatile”. E avevo una ben scarsa conoscenza di fiori o fragranze floreali, requisito che pareva indispensabile per un certo tipo di giornalismo vinicolo. Inoltre, avevo già un lavoro.

Nello stesso periodo in cui Dominique tirò fuori l’idea della rubrica mi venne chiesto di scrivere un profilo di Julia Roberts, proposta che inizialmente rifiutai per... be’, non so cosa diavolo fosse – presunzione intellettualoide, credo. “Non scrivo profili di celebrità,” dissi al direttore arricciando il naso. “Sei impazzito?” Mi chiese la mia agente più tardi, quando glielo raccontai. “Qualcuno vuole darti un bel gruzzolo per passare del tempo con Julia Roberts e tu dici di no?” In quell’ottica, capii immediatamente quanto i miei scrupoli fossero sciocchi. E ripensandoci anche la rubrica sul vino mi parve un’ottima opportunità. Una buona amica si offriva di pagarmi per indulgere a una delle mie ossessioni, viaggiare in posti fantastici ad assaggiare vini e conoscere spiriti affini. Non avrei dovuto pensarci neppure un attimo; e tuttavia mi sentivo inadeguato, privo delle qualifiche necessarie. Così decisi di scrivere come un dilettante guidato dalla passione e di usare un linguaggio metaforico; ero più a mio agio nel paragonare i vini ad attrici, gruppi rock, pezzi pop, quadri o automobili che nell’analizzare minuziosamente profumi e sapori tipo “bouquet di rose americane”. Se avessi dovuto rifarmi a un modello, avrei scelto Auberon Waugh, il figlio dello scrittore Evelyn Waugh, che conobbi a un pranzo della rivista satirica “Private Eye”. Ricordo che Waugh aveva appena pubblicato una parodia piuttosto feroce del mio ultimo libro, ma non potei fare a meno di restarne incantato, sollevato dal fatto che di persona fosse tanto benevolo e affascinante quanto spietato nei suoi scritti.

Il caso voleva fosse amico del mio mentore nell’enofilia, Julian Barnes, e di conseguenza divisi con lui molte bottiglie di vino durante le cene a casa di Julian. Nelle vesti di ospite era sempre vago e complimentoso sul vino. Non altrettanto nei suoi scritti. Anche in questo caso non potei fare a meno di apprezzarlo, se non altro perché scrisse alcune tra le critiche di vini più acute e buffe di tutti i tempi, raccolte in un sottile volume intitolato Waugh on Wine.

Nel suo saggio I pericoli di chi scrive di vino, dichiara: “La critica enologica dovrebbe essere a tinte forti. Lo scrittore non dovrebbe mai apprezzare un vino, dovrebbe innamorarsene; non dovrebbe mai trovare un vino deludente, ma ravvisare in esso un nemico mortale, un tentativo di avvelenarlo; l’acido solforico andrebbe scoperto al minimo accenno di asprezza. Andrebbero proclamati retrogusti bizzarri e improbabili: funghi, legno marcio, melassa nera, matite bruciate, latte condensato, liquami, puzzo di stazioni ferroviarie francesi o biancheria intima femminile.” Come scrittore di vino considero Waugh una sorta di maestro e precursore, anche se devo ammettere di essere più un amante che un assassino. Sebbene mi sia imbattuto in parecchi vini spregevoli mentre adempievo ai miei doveri per la rubrica enologica, ho scritto più spesso di quelli che mi fanno venire l’acquolina in bocca, le gambe molli e i peli delle braccia ritti sull’attenti. Quelli che mi fanno venir voglia di ululare alla luna e baciare in continuazione la mia fidanzata.

Il titolo che speravo di dare alla mia rubrica, Un idiota in cantina, rifletteva l’intenzione di ammettere francamente la mia ignoranza di fronte al sapere dei critici di professione, come Robert Parker e Jancis Robinson. Dominique lo bocciò, e credo che adesso, diversi anni dopo, sarebbe ipocrita fingere di non aver imparato cosa sia la fermentazione malolattica, o di non sapere distinguere un Borgogna da un Bordeaux. Chiunque beva e assaggi spesso quanto me non può non avere nella faretra l’equivalente della classica storia del pescatore in cui le dimensioni del pesce vengono esagerate a dismisura, l’aneddoto di una trionfale degustazione alla cieca; e il mio risale a circa quattro anni fa. Vedendomi quella sera al ristorante La Grenouille di New York, superbo tempio della haute cuisine vecchia scuola, avreste potuto pensare che fossi davvero un esperto. Ero arrivato in ritardo a una cena offerta da un’amica molto facoltosa. Gli altri invitati erano già seduti e avevano del vino rosso nei bicchieri. Sul tavolo c’era una caraffa. “Ecco Jay,” annunciò la mia amica. “È un intenditore di vini. Indovinerà quello che stiamo bevendo.” Per qualche motivo questo annuncio coincise con un momento di calma nello strepito della conversazione in tutta la sala; ebbi la sensazione che gli occhi di tutte le persone ai tavoli circostanti, oltre a quelli dei miei commensali, fossero puntati su di me. Il sommelier, che si trovava casualmente al mio fianco, mi porse un bicchiere e lo riempì dalla caraffa, poi fece un passo indietro e sogghignò, mentre l’intero ristorante, o così mi parve in quel momento, mi guardava in un silenzio colmo d’attesa. Non riuscendo a escogitare un modo elegante per sottrarmi alla prova, infilai il naso nel bicchiere. “Haut-Brion,” dichiarai, suscitando un coro di “oooh”. Esaminai il colore e feci un sorso: “1982,” aggiunsi. Dalle espressioni di sorpresa e meraviglia capii di aver indovinato. Mi sedetti per crogiolarmi nell’ammirazione generale, e pensai che forse tutti quegli anni passati a bere, assaggiare, sputare e leggere non erano stati interamente sprecati. Naturalmente, c’è un aneddoto dietro questo aneddoto, una specie di trucco, come spesso capita, e lo scoprirete nelle pagine che seguono, all’interno del capitolo sull’Haut-Brion.

Un episodio ben più tipico, che dimostra l’aleatorietà delle mie ambizioni di esperto, si è verificato di recente a una cena e riguardava la tenuta sorella dell’Haut-Brion, La Mission-Haut-Brion. Ero andato a trovare per l’ennesima volta Julian nella sua casa di Londra. La mia vicina a tavola, Jancis Robinson, autorità enologica eccessivamente modesta ed estremamente attraente, aveva appena indovinato che il vino che stavamo bevendo era un Bordeaux delle Graves. “Be’, però non può essere un La Mission,” dissi con assoluta sicurezza, dal momento che il La Mission-Haut-Brion è uno dei miei vini preferiti. “Be’, invece lo è,” mi informò allegramente Julian. Alla faccia del far colpo sulla mia nuova fidanzata, che non mi aveva ancora visto in versione fanatico del vino.

Per quanto grande sia il divertimento sadomasochistico che mi procura, paragonare e contrapporre vecchie annate di Bordeaux fa sempre meno parte del mansionario dello scrittore enologico postmoderno, e credo che i miei interessi e gusti riflettano certe tendenze attuali. Ho ancora un sacco di Bordeaux nella mia cantina, compreso quello del 2003, e appena arriva agosto comincio a seguire i bollettini metereologici di quella parte del mondo. Il Bordeaux è stato il mio primo amore, e resta per me una sorta di pietra di paragone. Tuttavia sono sempre più attratto dal suo rivale, il Borgogna, Turgenev rispetto a Tolstoj del Bordeaux; e quando cerco potenza ed esuberanza più pure e meno raffinatezza, dal dostoevskiano Rodano meridionale. Se nella prima serie di rubriche dedicavo uno spazio smodato ai Cabernet di culto della Napa Valley (pensiamo a Hemingway), la cui ascesa coincise all’incirca con la mia carriera di giornalista enologico, adesso credo che i Pinot delle contee di Sonoma e Santa Barbara (Fitzgerald) siano i nuovi rossi di culto. Questi vini sono in parte ispirati ai grandi rossi della regione francese della Borgogna, e il rinascimento che sta avendo luogo lì, in larga parte ispirato da una generazione più giovane che ha ereditato l’antico regno, costituisce un altro sviluppo incoraggiante. Il Pinot è diventato famosissimo grazie all’apparizione come protagonista nel film In viaggio con Jack di Alexander Payne. Il Syrah, nel frattempo, minaccia sempre di diventare una star californiana, ma per il momento la sua carriera è stata un po’ come quella dell’attore Orlando Bloom, una promessa che finora non si è pienamente realizzata. O forse – dal momento che il Syrah è un’uva dal testosterone alto – più simile a quella di Colin Farrell, star putativa che attende ancora la consacrazione definitiva.

La Francia e la Napa Valley si spartiscono sempre più con altre regioni le carte dei vini dei principali ristoranti e i cuori degli appassionati. Stellenbosch, Salvang, Mendoza, Priorat e Alba sono state alcune delle mie recenti destinazioni. Quando scrissi la mia prima rubrica l’Argentina era una barzelletta e la Spagna stava ancora emergendo dalle ombre dell’era di Franco; adesso il Malbec argentino, cresciuto sulle colline ai piedi delle Ande, è di gran moda, mentre la Spagna ha probabilmente scavalcato l’Italia come destinazione preferita tra i maniaci dell’uva e i buongustai. Lo Shiraz della Barossa Valley, poderosamente fruttato, e il Sauvignon Blanc neozelandese di Marlborough sono diventati due delle più grandi tipologie di vino al mondo, mentre altre regioni di entrambi i paesi producono un succo d’uva sempre più degno di nota. E il Sudafrica, un paese dove la vite viene coltivata fin dal diciassettesimo secolo, sembra sulla buona strada per diventare la nuova Australia. Il mio amico Anthony Hamilton Russell sta facendo degli incredibili Pinot Noir e Chardonney borgognoni all’estrema punta meridionale dell’Africa, in vigneti da cui dissotterra regolarmente utensili di mezzo milione d’anni fa e altri manufatti dei nostri più antichi progenitori.

chipotle? Più tardi, appena venni a sapere che Lora era di San Francisco e amica di Alice Waters (Chez Panisse), il senso della sua impresa cominciò ad apparirmi più chiaro.

La mia ambizione è condividere con questo libro alcune illuminazioni, e incoraggiare il lettore ad andare in cerca delle proprie.

Siamo onesti: c’è solo un’attività più gratificante del bere del buon vino accoppiato a un buon cibo; e se si beve con la giusta compagnia, il più delle volte un piacere condurrà all’altro.