IL molo antico di Marsala, dove a fine Settecento iniziò la “seconda vita” del vino locale con l’arrivo degli inglesi, è un posto quieto, ventoso e malinconico. Ma se si ama il vino, è una meta di pellegrinaggio: occorre arrivarci, guardare il mare e abbandonarsi alla tentazione un po’ retorica di immaginare il tempo in cui i brigantini inglesi puntavano l’attracco, e il molo stesso era un brulicare di operai, facchini e contadini, nel forte odore del vino arrivato dall’entroterra. E poi salire in auto e andare a vederlo, questo entroterra di campi e vigne, di venti tesi, ruderi di bagli e tradizioni arcaiche. Antonino “Nino” Barraco è uno dei custodi di questa memoria. I suoi vini, l’uno per l’altro capaci di vincolare in sé le suggestioni del luogo, sono diorami di territorio solcati da suggestioni marittime, solarizzati, mediterranei.
Così, vederlo alle prese con la sfida che per tutta la vita ha ossessionato un precursore come Marco De Bartoli non ci ha stupito. Recuperare – questa la sfida – il significato del luogo nel vino di Marsala, sfrondandolo da quanto nel tempo ne ha costruita l’ipotesi nuova, storicizzata e affascinante, ma svincolata dai dati identitari. Ed ecco finalmente il vino, il cui nome, Alto Grado, leggeremo in termini qualitativi. Nino lo ha realizzato come si faceva nelle case dei contadini marsalesi secoli fa: con l’immissione in un unico contenitore di un vino lasciato poi in balia dell’aria, della flor, dell’evaporazione. Ci ha raccontato di quest’uva di grillo, raccolta stramatura in un vigneto di quarant’anni in contrada Comuna, a Mazara e vinificata in bianco; e della permanenza del vino per sette anni in una botte scolma di castagno, con rabbocchi solo per i primi due, e poi non più toccato. Lo abbiamo accostato al naso: ci ha spettinati una raffica di agrumi e capperi, tabacco e fichi al forno, albicocca e calcare, mille altre cose, e poi è arrivato il sapore, ardente e soave, coeso, e come attraversato da una vena salmastra. Un vino eccezionale e inestimabile: dedichiamo al suo autore i puntuali versi – in fondo più suoi che nostri – di un poeta arabo-siciliano di mille anni fa, Ibn al-Qatta (1041-1121): «Non versare più lacrime / su un luogo di bivacco ormai distrutto /svanite persino le macerie / e vieni di buon mattino al vino / sul quale già son passati anni su anni».
E poi salire in auto e andare a vederlo, questo entroterra di campi e vigne, di venti tesi, ruderi di bagli e tradizioni arcaiche