Se c’è un fenomeno davvero irritante, prima ancora che avvilente, nel mondo del vino degli anni Duemila, è l’inaccettabile sottovalutazione delle qualità di uno dei nostri migliori vini, il Dolcetto. Una forma di disinteresse che poteva essere comprensibile, se non giustificabile, quando i pachidermi dell’Era Quaternaria (detta anche neozoica) popolavano le tavole italiche: Cabernet Merlotton Riserva, bottiglia di vetro blindato, 500 grammi per litro di estratti (dei quali 300 di polifenoli), 400% legno nuovo. Ma oggi? Proprio oggi che il bevitore medio va in cerca di vini aggraziati, scorrevoli, “sciolti”, facilissimi da mandar giù, ancora non si riesce ad afferrare che questa tipologia è fonte di grande soddisfazione?
La Cascina Corte produce Dogliani, senza la dizione Dolcetto, perché la legge lo consente (anzi, lo impone per questa particolare sottozona dell’albese). Ma l’uva è, beninteso, dolcetto. Confessiamo volentieri, addirittura con fierezza, la nostra passione personale per i succosi rossi ottenuti da questa caratteriale varietà. Una personalità che emerge in modo chiaro nel vino di Sandro Barosi e Amalia Battaglia, ex cittadini divenuti vignaioli poco meno di un decennio fa.
La Cascina Corte sta sulle colline dell’area di San Luigi, la più nota ed estesa del doglianese.
I vigneti vengono coltivati in regime biologico. La vigna Pirochetta ha raggiunto la venerabile età di sessant’anni e insiste su un terreno calcareo argilloso, con venature di tufo blu. La vinificazione parte da lieviti naturali e si svolge senza forzature nell’estrazione. Il vino rimane un anno e mezzo circa in serbatoi d’acciaio e viene imbottigliato senza alcuna chiarifica. Ne risulta un Dogliani di austera ma insieme comunicativa espressività, del tutto privo dei toni dolciastri di una confettura di more, ma al contrario incisivo nel proporre aromi e gusto di ciliegia amara. La struttura, non certo debole, si “distribuisce” armoniosamente al palato, senza impuntature e buchi nell’erogazione. Il finale, delicatamente tannico, offre il tipico timbro amarognolo della tipologia. Viva il Dolcetto.
Proprio oggi che il bevitore medio va in cerca di vini aggraziati, scorrevoli, ‘sciolti’, facilissimi da mandar giù, ancora non si riesce ad afferrare che questa tipologia è fonte di grande soddisfazione?