ROSSESE DI DOLCEACQUA
GIUSEPPINA TORNATORE

Del Dolceacqua si è parlato molto in questi ultimi anni, e giustamente. Come a molti noto, si tratta di un rosso da una varietà locale detta rossese, leggero di struttura, dalle tenui trasparenze e ricco di riflessi, profumatissimo, bilanciato ed elegante, poco o nulla tannico, di sorprendente finezza salina. È tuttora prodotto in un areale limitato, da una trentina di produttori per un totale di poco superiore alle 300.000 bottiglie all’anno, ma riassume in sé molti aspetti del vino oggi considerati “attuali”. Ci sono cantine che fungono da punto di riferimento, e sono ormai conosciute dal pubblico degli appassionati, e altre, gestite talvolta da personaggi timidi e schivi, che si limitano a sfornare ogni anno bottiglie di Dolceacqua di filologica tipicità, magari con etichette più naïf, oppure con qualche perdonabile imperfezione. Si tratta in ogni caso di vini come minimo interessanti, tanto dinamica e positiva è la sinergia tra questa rara uva e il suo piccolo territorio, letteralmente incastrato tra il mare e le Alpi Marittime.

I terreni, piuttosto rari in zone vitivinicole italiane, sono in gran parte composti da pietra arenaria scistosa, che i locali chiamano sgruttu e i geologi flysch (forse è meglio sgruttu): è una roccia grigio-ocra che d’estate si frantuma in cubetti che paiono quei pezzi di sapone di Marsiglia che un tempo le donne portavano ai lavatoi. Di questi rossese “fantasma”, cerca e ricerca, ne abbiamo trovato uno immancabile: il nome dell’azienda è quello di Giuseppina Tornatore, che con suo marito Nuccio acquistò nel 1984 un ettaro di vigneto a Dolceacqua. Per la verità questo ettaro è diviso a metà su due versanti diversi, in due delle “nomeranze” storiche del luogo, cioè quelli che in Francia si chiamano cru, le vigne di prestigio: Armetta e Tramontina. Il Rossese che ne deriva, unico vino aziendale a tutt’oggi prodotto, ha colore talmente chiaro che dal rubino trasparente del cuore tocca l’indaco al bordo; profuma di rose come forse nemmeno le rose, e di liquirizia dolce, fragoline selvatiche, sali termali e timo; al sorso ha un candore angelico, scivola senza frizioni tra volute floreali, e lascia congedandosi una lieve reminiscenza di agrumi e minerali. Del resto, per tenero che possa essere, il Rossese non deriva il suo nome dalla parola “rosso”, ma dalla parola “roccia”: e mai confondere l’affabilità con la debolezza.


Per tenero che possa essere, il Rossese non deriva il suo nome dalla parola ‘rosso’, ma dalla parola ‘roccia’: e mai confondere l’affabilità con la debolezza