Ci sono territori dove sperimentare pare un sacrilegio: non necessariamente sono quelli dove le testimonianze della viticoltura sono più antiche (in Italia abbiamo terroir certamente vitati all’epoca dei “magnogreci”, degli Etruschi e dei Romani). Più spesso, si resiste alla novità con determinazione nei luoghi in cui la viticoltura ha assunto caratteri stabili, e non servono venti secoli: ne bastano due, ma consecutivi. Mentre nel 1978 Angelo Gaja piantava barbatelle di cabernet sauvignon in uno storico cru di barbaresco, il padre Giovanni era inconsolabile: «Darmagi!» sospirava (dal francese dommage! – “peccato!”). In Valpolicella è più o meno lo stesso: ve lo immaginate un vigneto sopra Negrar in cui non trovare una pianta di corvina, rondinella o molinara? E dove magari trovare una pianta derivata dall’incrocio tra una varietà mediterranea e una bordolese? Ebbene, esiste. È a Panego, seicento metri di altitudine, mezzo ettaro d’impianto sperimentale, lassù dove per la corvina qualche problema di maturazione in effetti ci sarebbe. La pianta in questione si chiama marselan, è un “cavallo da lavoro” francese creato in laboratorio negli anni Sessanta incrociando cabernet sauvignon e grenache.
In Linguadoca, dove è discretamente diffusa, quest’uva dà un vino nerastro, tannico, fresco, di medio interesse. Ma è una cultivar resistente, generosa; una varietà da taglio, che ultimamente ha dato vita a qualche valido rosato. Ad avere avuto la bizzarra idea di piantarla a Panego è Cristiano Saletti, dopo l’assaggio di una serie di microvinificazioni di uve inconsuete. Una sensibilità, va ammesso, rabdomantica, che chi conosce le altre etichette prodotte da Cristiano e da sua moglie Laura Albertini – sotto il nome aziendale di Terre di Pietra – ha ben presente. Una parte delle uve arriva dal paese di origine di Cristiano, Torbe, in piena Valpolicella, l’altra da Marcellise, pietrosa zona di cave, dove ha sede la cantina. La prima annata del vino da marselan, battezzato, in ossequio a un tannino poco mansueto, La Rabiosa, è la 2011. Nel sontuoso profumo, un ricordo erbaceo screzia appena la maturità del frutto, senza pesantezza né staticità, tra volute floreali e una piacevole speziatura. All’assaggio, il tannino preme, ma l’alleanza di acidi e sali, chiara eredità territoriale a quella quota, con quel clima e quel terreno, rinfresca il vino, gli sottrae peso, gli regala senso, valore, unicità.
Ve lo immaginate un vigneto sopra Negrar in cui non trovare una pianta di corvina, rondinella o molinara? E dove magari trovare una pianta derivata dall’incrocio tra una varietà mediterranea e una bordolese? Ebbene, esiste