Oscurato negli anni Novanta dalla marea montante degli anabolizzati premium wines, relegato a residuo folkloristico locale, snobbato dai palati rivestiti di smalto degli appassionati dell’epoca, il vino di Dolceacqua si è preso una bella rivincita nell’ultimo decennio. Dal dimenticatoio è passato all’estremo opposto, assurgendo a simbolo della reconquista dei vini autentici sugli invasori stranieri. La stessa, disinvolta vacuità con la quale l’enofilo medio si riempiva la bocca – letteralmente e metaforicamente – con dei copertoni da autocarro a base di merlot salassato, oggi si rivolge estasiata ai tenui e snelli Rossese. Un progresso comunque, si dirà; e di sicuro noi concordiamo. Meglio un vino vero di uno pneumatico da neve travestito da rosso. In questa scheda rivolgiamo però la nostra attenzione non ai rarefatti e profumati rossi della zona, ma a un bianco. Un bianco a base di uve vermentino vinificato con austera, claustrale eleganza da una figura leggendaria del posto, Antonio “Nino” Perrino. Il cui Rossese, en passant, è tra i più convincenti della intera denominazione.
La cantina di Perrino non è nient’altro che il garage di casa, in paese: poche botti vecchie, una pressa verticale. E basta. Ma il bianco è tutto meno che un vin de garage, se si sta all’accezione francese del termine, che descrive i vini potenti e vellutati della koiné internazionale. È invece un bianco di trattenuta, quasi severa espressività aromatica – erbe dell’orto, spezie, toni appena “bucciosi” – in cui la macerazione non è pensata per aggiungere uno chassis pesante e tannico al vino ma è in funzione di una misurata, netta accelerazione delle sensazioni sapide del gusto. Attenzione, non pensiate che si tratti di un vinello da bere giovane: sa maturare con grazia insospettata in cantina, e anzi tende a dare il meglio di sé dopo diversi anni dalla vendemmia.
Il vino di Dolceacqua dal dimenticatoio è passato all’estremo opposto, assurgendo a simbolo della reconquista dei vini autentici sugli invasori stranieri